Paolo Panerai, Milano Finanza 5/2/2011, 5 febbraio 2011
ORSI & TORI - Un applauso, intenso, lungo quattro minuti. Eppure l’oratore non era dei più entusiasmanti e neppure il suo ricordo di Tommaso Padoa Schioppa è stato entusiasmante
ORSI & TORI - Un applauso, intenso, lungo quattro minuti. Eppure l’oratore non era dei più entusiasmanti e neppure il suo ricordo di Tommaso Padoa Schioppa è stato entusiasmante. Ma gli applausi a Romano Prodi, nel pomeriggio bocconiano dedicato a onorare il banchiere e ministro recentemente scomparso, in realtà non erano tanto diretti a lui, bensì all’alternativa che ha rappresentato in passato, anche se di scarsissimo successo. La buona borghesia milanese, l’intellighenzia della Bocconi, i professionisti, i banchieri, gli imprenditori che erano accorsi al perentorio invito del presidente dell’università, Mario Monti, accomunato a Padoa Schioppa sia dagli anni dell’università che dalla comune militanza europeista a Bruxelles, non hanno certo riempito di gioia, con quell’applauso, i due ministri presenti: Giulio Tremonti e Roberto Maroni. Comprensibilmente, mentre gli applausi scrosciavano, l’espressione del bravo ministro Tremonti si incupiva. Anche perché Prodi si era permesso di dire, nell’entusiasmo, una non verità: Tommaso, ha detto, usando volutamente il nome, aveva rimesso nelle regole internazionali la contabilità dello Stato; oggi ne è stata fatta carne di porco. Appunto una non verità, poiché se c’è un ministro dell’Economia che finora ha applicato un rigore almeno pari a quello del suo lontano predecessore sulla stessa scrivania, il mitico Quintino Sella, questo è proprio Tremonti. Tuttavia, il significato di quell’applauso è pregno di significato. La borghesia milanese, ma anche di altre città, che era accorsa alla Bocconi, sembra apprezzare più la gestione inconcludente che quella fattiva, ma oscurata da molte ombre, del governo guidato da Silvio Berlusconi. Una realtà della quale sarebbe bene che Berlusconi prendesse atto. Poiché è proprio nella sua città che molti elettori del centro-destra cominciano a sentirsi fortemente a disagio. Molti comprendono che l’attacco mediatico scatenato dai pm milanesi, tradizionali nemici del primo ministro, è iniquo e fuori dal rispetto dei diritti alla difesa e al segreto istruttorio dei cittadini. Ma molti non sono più disposti ad assistere a rappresentazioni trucide nel momento in cui comportamenti privati spinti diventano pubblici e patologici. Quindi, delle due l’una: o in Parlamento c’è una maggioranza che riforma la giustizia in modo da scongiurare, naturalmente non solo per Berlusconi ma per tutti i cittadini, processi mediatici in cui il presunto colpevole viene giudicato prima che dal suo giudice naturale, come dovrebbe avvenire in uno Stato democratico e liberale, o il presidente del consiglio si comporta in modo che fatti privati spinti non divengano pubblici. In tal senso, il rimedio è semplice, stabilito che ognuno a casa sua possa fare quello che vuole: moderazione e discrezione. Non si può quindi non salutare con favore, anche senza essere schierati, al ritorno al fianco di Berlusconi, come consigliere politico, di Giuliano Ferrara, l’elefantino che lo stesso Berlusconi aveva fatto ministro nel suo primo governo. L’intelligenza, il buon senso, la misura, se non nel fisico traboccante, di Ferrara potranno contare non poco, prendendo il posto di personaggi di ben più basso livello. Finalmente, si lascia consapevolmente sfuggire uno dei più alti dirigenti del gruppo Fininvest: «Nel 1994 i consiglieri principe erano tre: Fedele Confalonieri, Gianni Letta e Ferrara. Al loro posto, almeno a quello di Confalonieri, pur sempre primo amico, e Ferrara, si erano insediati personaggi come Daniela Santanchè e Aldo Brancher_». Il primo effetto del ritorno di Ferrara, un aiuto indispensabile per l’eroico e paziente Letta, lo si è subito visto: bando ai programmi di protesta in piazza contro i magistrati milanesi e ripresa di un sano attivismo di governo, con l’annuncio, per il consiglio dei ministri di martedì 8, di provvedimenti forti per rilanciare l’economia con la detassazione degli investimenti nelle piccole e medie imprese e una serie di liberalizzazioni per l’attività imprenditoriale che non costano nulla ma possono far crescere l’efficienza. Del resto, un vento forte sta spirando anche nel mondo imprenditoriale e finanziario. Lo scontro, anche duro, fra Diego Della Valle e Cesare Geronzi (notoriamente due persone che mi onorano della loro amicizia e che fino a poche settimane fa erano loro stessi amici) sottintende quantomeno un tentativo, senza aggettivi, di modificare gli assetti finanziari e di potere mediatico in Italia. È il confronto fra due modi di concepire la gestione delle imprese che nasce dalle differenti origini e dallo sviluppo della loro attività: Geronzi per molti anni in Banca d’Italia e poi vicedirettore generale del Banco di Napoli (controllato dal Tesoro), quindi direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, fu scelto da Guido Carli (allora ministro) e da Carlo Azeglio Ciampi (allora governatore) per scongiurare il fallimento di due banche, il Santo Spirito e il Banco di Roma, profondamente impregnati di politica e di finanziamenti irrecuperabili. Con l’aiuto di Pellegrino Capaldo e poi in solitario, fondendo le due banche nella media Cassa di Risparmio di Roma, Geronzi ha portato a termine la missione due anni e mezzo fa con la fusione fra Capitalia (erede di Banca di Roma) e Unicredito. Per il ruolo svolto, nel pantano di Roma, il potere di Geronzi è cresciuto enormemente anche grazie al rapporto con Berlusconi, inevitabilmente riconoscente per l’aiuto datogli dal presidente della allora Banca di Roma, quando Credito Italiano gli revocò, su ordine di Enrico Cuccia, oltre 300 miliardi di lire di linee di credito, intimandogli il rientro in poche ore: se Fininvest non avesse avuto aperta un’immediata ed equivalente linea di credito da Geronzi, Mediaset quotata in borsa non ci sarebbe mai stata e il gruppo sarebbe finito inevitabilmente nella sala tortura di Mediobanca, come dice spiritosamente Confalonieri, ricordando di aver ascoltato in anticamera le grida di dolore dei Ferruzzi finiti in mano a Cuccia. Navigando in questi mari, è stato quasi naturale che finita la missione con Capitalia Geronzi diventasse presidente di Mediobanca e dopo non molto tempo approdasse alla presidenza di Generali, il vero tesoro di Mediobanca. E, sia da una posizione che dall’altra, ha avuto sempre l’ultima parola, insieme a Giovanni Bazoli, per le nomine più importanti nelle partecipate, dal vertice di Telecom alla direzione del Corriere della Sera con la scelta di Ferruccio de Bortoli, dopo che Roberto Napoletano (direttore del Messaggero) era stato bocciato. Medioanca, le Generali, Rcs e quindi il Corriere della Sera sono a un tempo aziende e centri di potere. Della Valle si è convinto, per esperienza personale, che per ammodernare il Paese sia necessario che queste aziende siano solo aziende. Una visione puramente imprenditoriale, che molti condividono, ma che deve fare i conti con il fatto che oggi tuttavia tutte e tre continuano a essere anche centri di potere. Certamente le esperienze personali in questo caso pesano. Quando il furbetto del quartierino Stefano Ricucci stava scalando Rcs insieme a Gianpiero Fiorani della Lodi, il sindacato di controllo della casa editrice, sotto la spinta in particolare del presidente di Intesa Giovanni Bazoli, decise che chi poteva, in termini di regole del patto e di capacità finanziarie, dovesse comprare azioni. Ma azioni vere, non opzioni, per mostrare che il patto aveva ampia capacità di resistere. In realtà, l’unico che comprò azioni anche a 7 euro fu Della Valle, che oggi segna una perdita nell’investimento di 110 milioni circa. Una perdita che lo fa sentire legittimato a pretendere, come del resto Benetton e il re delle cliniche Giuseppe Rotelli, attualmente fuori dal sindacato, una gestione finalizzata al profitto e basta. Quindi non è difficile immaginare che oltre che nel consiglio di Generali, dove Della Valle ha chiesto che sia messa all’ordine del giorno l’ipotesi di vendita della partecipazione del 3,9% in Rcs, il confronto sarà sostenuto anche in occasione della prossima scadenza del patto di controllo della casa editrice. Passaggio generazionale? Della Valle va per i 57, Geronzi ne ha 75, Bazoli qualcuno di più. Ci sta che sia in corso un conflitto generazionale. Tuttavia con significativi interessi in gioco. Farà bene o farà male al Paese? Certamente non benissimo. In un momento come questo servirebbe una unità di intenti non solo della politica ma anche dell’imprenditoria. Ma talvolta i conflitti possono avere anche un esito positivo, nel senso di chiarire lo scenario. Ciò che è auspicabile è che i conflitti fra imprenditori, grandi presidenti, gran commis di Stato non degeneri al livello dello scontro politico. Fa bene alla democrazia anche un dibattito pubblico, dopo decenni in cui la mania di segretezza imposta dalla Mediobanca del fondatore Cuccia hanno contribuito a ingessare il Paese, ad alimentare forme di potere occulto, da confraternite e grembiulini, con la creazione di soluzioni di ingegneria finanziaria che hanno pochi riscontri nel resto del mondo, se non in Francia. Il sistema Italia dovrebbe poter contare sull’apporto di tutti e in particolare di Generali, l’unico gruppo nazionale con capacità di investimento di centinaia di milioni di euro all’anno. Nel programma che aveva spinto molti a cambiare il vertice della grande compagnia di assicurazioni, c’era e dovrebbe esserci un affrancamento da Mediobanca per poter dispiegare liberamente tutte le risorse di investimento. Qualche passo avanti è stato fatto, anche perché dalla sede di Mediobanca c’è più modernità. Ma non basta. Anche i ragazzi del liceo sanno che il problema dell’Italia sono i capitali che mancano per investire e quindi promuovere uno sviluppo più alto del misero 1% che ha caratterizzato gli ultimi anni. Generali è uno dei pochi gruppi con le risorse per aiutare lo sviluppo. Ma anche la Rcs potrebbe avere un ruolo importante in questa direzione, non certo con i capitali, ma con la forza di comunicazione, facendo a un tempo gli interessi economici dei suoi azionisti e del Paese. Non c’è che da auspicare che prevalgano il buonsenso, il rispetto reciproco e l’equilibrio.