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 2011  aprile 02 Sabato calendario

LE MEMORIE DI "RUMMY" IL FALCO "L´IRAQ? COSE CHE SUCCEDONO..."

Troppo arrogante per potersi pentire, troppo intelligente per capire, torna dall´esilio dell´imbarazzo nazionale colui che fu il volto, la voce, l´anima nera della guerra sbagliata in Iraq: Donald Rumsfeld. Il "Rummy" venerato dai falchi prima di essere brutalmente scaricato, torna, fortunatamente, soltanto nelle librerie con la sue memorie "Known and unkown", il noto e l´ignoto, per rivelare tutto il suo rancore verso i nemici di ieri, per ammettere che George Bush era assai meno "decisionista" e assai più pasticcione di come la propaganda lo descriveva e per confermare quello che tutti avevano capito, ma che allora nessuno voleva ammettere: che Bush aveva deciso subito, ancora sulle rovine calde delle Torri e del Pentagono, di invadere l´Iraq. «I piani per le guerra sono pronti?» s´informò il presidente nelle ore successive all´11 settembre. «La guerra in Afghanistan?» gli risposero. «Ma no, la guerra in Iraq» si stupì Bush.
Nelle 832 pagine del tomo che andrà in vendita l´8 settembre, l´ex ministro della Difesa scelto, insieme con il vecchio compare Dick Cheney alla vice presidenza per fare da balie all´inesperto George Bush catapultato alla Casa Bianca dai postumi degli scandali clintoniani e dalla elezione del 2000 decisa da una sentenza della Corte Suprema, sembra avere soltanto un rimpianto sincero e, come tutto di lui, autoreferenziale. Quello di non avere dato le dimissioni nel 2004, dopo l´esplosione del "caso Abu Ghraib", delle torture e delle umiliazioni inflitti agli iracheni sospetti di ribellione armata proprio nel carcere degli orrori saddamiti che tanto nocque alla sceneggiatura dell´America liberatrice. «Con il senno di poi - scrive Rummy con la prosa involuta di chi ammette senza ammettere - ci sono cose che avremmo potuto fare diversamente nei confronti dei prigionieri di guerra». Invece di dimettersi e di accettare la responsabilità per i comportamenti dei suoi soldati in quel carcere, e per i maltrattamenti nel lager di Guantanamo che pure lui riconosce - ma senza mai accettare la parola proibita, «torture» - Rumsfled avrebbe resistito per altri due anni e mezzo, fino alle elezioni parlamentari nel novembre 2006 quando la mazzata presa dal partito repubblicano, il suo, convinse George Bush a scaricarlo. Comunque «il Medio Oriente è oggi un luogo migliore senza Saddam Hussein» è la conclusione autoassolutoria e sbrigativa.
Ma anche se ormai 78enne, questo grande navigatore dei palazzi e dei ministeri washingtoniani e dei Consigli di amministrazione di grandi aziende, come la farmaceutica Searle nei quali sedeva, non può perdere l´occasione per tirare qualche calcetto negli stinchi di coloro con il quali bisticciava tutti i giorni dentro il governo. Personaggi come Condoleezza Rice, la consigliera per la Sicurezza Nazionale, accusata di essere incapace di «presentare al presidente conclusioni chiare e semplici», più adatte a un Capo dello Stato «meno impreparato e stupido di come veniva descritto», ma spesso in difficoltà al momento di scegliere un corso d´azione e di attuarlo. O come il suo mortale nemico, il segretario di Stato Colin Powell, l´eterno frenatore degli slanci neo con e aggressivi del duo Cheney-Rumsfeld. «Non è vero che la forza militare inviata a occupare l´Iraq fosse insufficiente e che i generali mi avessero chiesto più soldati», mente Rumsfeld, dopo che tutti i principali condottieri della campagna, a cominciare dal comandante supremo della spedizione, generale Tommy Franks, hanno detto e scritto il contrario. Rumsfeld ridusse al minimo la forza d´invasione, creando il vuoto di potere nel quale Bagdad e il resto dell´Iraq precipitarono nei primi mesi e anni.
Ma «grazie al cielo, Rumsfeld fu finalmente rimosso» ha commentato ieri feroce il senatore John McCain, teoricamente repubblicano come lui, «perché se avessimo continuato con la sua strategia, ci saremmo avviati a una disastrose e umiliante disfatte». Cacciato "Rummy", Bush e il suo successore al Pentagono, decisero l´escalation della forza, il surge e la strategia degli accordi e della collaborazione ben retribuita con gli sceicchi, i capi clan, i vecchi boss del regime caduto e riuscirono a stabilizzare il paziente iracheno. Fu la negazione della linea Rumsfeld lo sprezzante, di colui che licenziava i disastri dei primi anni di occupazione con una frase ormai divenuta leggendaria: «Stuff happens», sono cose che succedono e si infuriò di fronte ai saccheggi del museo di Bagdad spiegando che si trattava di «qualche vaso». E il mondo si cominciava a chiedere, disse, «mio Dio, ma quanti vasi hanno questi in Iraq?».
Non ha colpe, né rimproveri seri da farsi dunque, a differenza di un uomo assai simile a lui, per arroganza intellettuale, quel ministro Bob McNamara che pianificò per Kennedy e poi per Johnson le operazioni in Vietnam e, poco prima di morire, chiese perdono pubblico piangendo. Il solo momento di commozione e di umanità è riservato al dramma dei due figli, catturati nella trappola della tossicodipendenza.
Ma sono i rancori politici, da duelli politici, quelli che ancora bruciano nella sua memoria, le umiliazioni nelle guerriglie intestine del potere, specialmente contro quel diplomatico, Paul Bremer, imposto come «proconsole» assoluto a Bagdad dal Dipartimento di Stato, al posto di un inetto generale in pensione, Jay Garner, che Rummy aveva scelto e che fu rimosso dopo appena un mese. Bremer «aveva un filo diretto con la Casa Bianca, prendeva decisioni senza consultarmi». In lui, aveva trovato un rivale ancora più presuntuoso e spregiudicato, al quale non può perdonare d´averlo aggirato. Tutto qui, il «pentimento» di un genio fin troppo compreso che costò 4 mila soldati morti, centomila feriti, centinaia di miliardi e decine, forse centinaia di migliaia di iracheni caduti, prima di essere licenziato e non ha neppure il coraggio di ammettere in quasi 900 pagine di essersi, magari un pochino, sbagliato.