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 2011  febbraio 10 Giovedì calendario

CANZONI D’ITALIA


Proprio perché "Sanremo è Sanremo" quest’anno sdogana il dialetto. Il responsabile-colpevole, il lombardo Davide Van De Sfroos, allontana sospetti di militanza: "Non sono in rappresentanza di un popolo. Sarò su quel palco come cantante. L’Italia rimane unita anche grazie all’identità dei dialetti". Ottimo documento programmatico, politicamente correttissimo. Ma spira il vento del federalismo e l’Ariston si adegua. O viceversa. L’assunto è che (anche, soprattutto) la musica ha unito le Alpi alla Sicilia quando ce n’era bisogno e tocca ancora alla musica, oggi, segnalare le nuances. Vasto programma per quelle che (Jannacci dixit) sono solo canzonette? Attenzione perché, avvertiva il filosofo francese Vladimir Jankelevitch, peraltro buon pianista, la comunicazione attraverso le note contiene l’elemento dell’ineffabilità. Produce più zone d’ombra, più mistero, ad esempio della letteratura. E colpisce altre parti del corpo, oltre al cervello. Dunque parla all’uomo, qualunque uomo, toccandolo nel suo nucleo universale. L’inglese ha viaggiato sulle melodie nella sua colonizzazione culturale. L’italiano ha fatto altrettanto quando si è trattato di fare patria e cittadini.
Se i brani tornano al dialetto, bisogna riconoscere un percorso circolare, perché dal dialetto hanno avuto origine, come avverte il professor Paolo Prato, autore del monumentale "La musica italiana, una storia sociale dall’Unità ad oggi" (Donzelli, 526 pagine, 33 euro, da poco in libreria): "La canzone napoletana è il primo prodotto moderno". I campani se la sono portata sui bastimenti verso la "Merica" e anche ai veneti lì appresso scappava la lacrimuccia perché riconoscevano almeno un’assonanza. Non come quel foresto inglese che "li feriva al cuore come un coltello", come avrebbe ricordato molto tempo dopo Francesco Guccini nel suo amarcord dell’emigrazione. In questo senso, i Borboni avevano perso la guerra sui campi di battaglia e si prendevano la loro rivincita nell’immaginario ("O sole mio" è del 1898).
Certo prima c’erano stati i canti giacobini portati su e giù dagli Appennini sulla punta delle baionette e che avevano parlato ad alcune classi, parola in disuso, anticipazione di quello che sarebbe stato l’internazionalismo proletario. Veri inni d’appartenenza, da Nord a Sud, sarebbero poi stati "L’addio Lugano bella" degli anarchici, l’"Inno dei lavoratori" di Filippo Turati e Amintore Galli o, più tardi, le colonne sonore del fascismo ipernazionalista. Trasversali per latitudine ma di parte. Finché irrompe la radio che impone di parlare a tutti (il media è il messaggio) seppur con certi limiti perché coincide, grosso modo, con la dittatura e o si banalizza o si procede per allusioni per non insospettire gerarchi che trovavano persino in "Maramao perché sei morto" (un riferimento a Costanzo Ciano?) motivo di allarmarsi. E del resto i regimi temono la musica e le sue declinazioni, nell’Italia recente almeno da quel "Viva Verdi" anti-asburgico che era diventato un acronimo per viva Vittorio Emanuele re d’Italia (pensare che, per capitombolo delle appropriazioni, Verdi è oggi un simbolo della Lega già secessionista e al minimo autonomista). La radio allora, ma anche il cinema se gli italiani riconoscevano i propri sentimenti in "Solo per te Lucia" di Cesare Andrea Bixio, colonna portante del primo film sonoro italiano, "La canzone dell’amore", girato nel 1930 da Gennaro Righelli.
La conquista della democrazia, versione irriverente, è plasticamente rappresentata dal ritornello di "Simm ’e Napule" che contiene un invito-imperativo: "Scurdammoce ’o passato". La canzone torna a casa e sotto il Vesuvio trova la linfa per la sua definitiva sfida unificante. Roberto Murolo, Renato Carosone, Fred Buscaglione. Chiosa Stefano Micocci, romano, curatore della rivista della Siae "Viva Verdi": "È Carosone che, reduce da dieci anni di Africa orientale, recupera la tradizione e la contamina con arrangiamenti e testi coraggiosi, ironici, ritmici. Fa la gavetta nel Centro-sud, ma è a Milano che si afferma, nella nostra città cioè che è sempre stata più curiosa anche se forse adesso un po’ meno". Stefano è il figlio di quel Vincenzo Micocci, recentemente scomparso, che è stato tanta parte della nostra musica dal secondo dopoguerra a oggi. Direttore artistico di Rca e Dischi Ricordi, fondatore di Parade e It. È lui il protagonista di "Milano e Vincenzo" del piemontese Alberto Fortis, con quel ritornello estremo "Vincenzo io ti ammazzerò", drastico proclama dopo un rifiuto, poi mutato in un riconciliante "Vincenzo io ti abbraccerò" ma passando per quel "io vi odio a voi romani", punta avanzata del regionalismo conflittuale che talvolta affiora anche nella divisione territoriale delle varie scuole, soprattutto di cantautori. A proposito dei quali il capostipite riconosciuto e venerato non può che essere Domenico Modugno. Rudi Assuntino, etnografo e musicologo, lo ricorda con le parole pronunciate da Gigliola Cinquetti a Polignano a Mare nel 2004 a un convegno sul grande scomparso: "Sono di Verona. La prima volta che ho visto Modugno in tv sembrava un terrone coi baffi. Non si capiva niente. Poi, quando cantò "Volare" a Sanremo ho visto mio padre in piedi sul tavolo che cantava insieme a lui e diceva "siamo tutti terroni"". Era il 1958. "Volare", il motivo italiano più conosciuto al mondo e l’unico riproposto nei vari "Live aid" degli anni Ottanta, in realtà è la prima parola del ritornello di "Nel blu dipinto di blu" e sembrava il prodotto di un propellente chiamato boom economico che spingeva "più in alto e ancora più su". Era anche una pulsione libertaria che racchiudeva, in nuce, le istanze che avremmo compreso nel termine Sessantotto. Per Assuntino, "c’è un prima e un dopo Modugno. Prima bisognava avere la voce impostata, dopo chiunque può cantare in pubblico ed è l’origine dei cantautori".
Nel frattempo il Festival di Sanremo è emigrato dalla radio alla televisione. Provoca, dapprima, le adunate degli spettatori nei bar quando l’elettrodomestico non è ancora così domestico. Tra i tavoli dei locali, dopo quella nelle caserme, avviene la seconda grande contaminazione tra italiani, frutto della massiccia emigrazione dal Sud causata dall’industrializzazione. Lombardi e pugliesi. Piemontesi e siciliani. Tutti a dividersi per simpatia o apprezzamento delle qualità canore tra Claudio Villa e Gianni Morandi. A fidanzarsi con l’eco di un Lucio Battisti, a fremere sull’onda dell’erotismo spinto di una Patty Pravo, a perdersi nelle discussioni tra il partito di Mina e quello di Milva. Avendo come base il tema dell’amore se il lavoro, ad esempio, compare assai poco come dimostra il libro "Vincenzina, Brambilla e il dirigente, lavoro e lavori nella musica leggera italiana dagli anni Sessanta ad oggi" di Azio Sezzi (prefazione di Tito Boeri, Aliberti editore).
Se gli anni Cinquanta appaiono così lontani, bisogna interrogarsi sul perché i Sessanta e i Settanta sono al contrario così presenti. Patty Pravo sarà ancora a Sanremo, Morandi ne sarà il presentatore, Mina e Celentano dai loro buoni ritiri sfornano dischi sempre attesi come eventi. La risposta, duplice ma sovrapponibile, è che quella fu l’età dell’oro, sia dell’Italia unita sia della qualità del prodotto; e che gli adolescenti di quegli anni, i baby boomers, oggi stanno nelle stanze dei bottoni e amano riproporre, per nostalgia della stagione migliore della vita, i loro miti. I palinsesti televisivi sono infarciti di programmi su base musicale, nipoti di Canzonissima e Studio Sette. I cantautori di allora, pur se catalogati per origine, i genovesi, gli emiliani, i napoletani, producono sempre linguaggio comune ed eventuali vezzi dialettali sono accarezzati come ricchezza espressiva, come in Carlo Emilio Gadda. Manca, e tanto, un De André che pure col genovese e con il sardo ci aveva fatto prendere confidenza. Si è aggiunto, rispetto al catalogo dell’epoca felice, un Vasco Rossi perché a tutte le latitudini c’è un Alfredo che ti ha fatto perdere "un’altra occasione buona". Però le generazioni passano e, avverte Paolo Prato, "per quelli che sono ragazzi oggi la musica non è più in linguaggio unificante. Nel 1999 c’è stato il sorpasso irreversibile della vendita dei videogames sui dischi e pure lì dentro c’è la musica ma ha solo una funzione di intrattenimento". Un po’ di italiano nei videogames, please.