Marco Magrini, Nòva24 4/2011;, 4 febbraio 2011
IL CHIP E L’ORO NERO
Si diceva che il mondo era drasticamente cambiato, l’11 settembre di dieci anni fa. Ma per i petrolieri, il mondo è cambiato il 20 aprile dell’anno scorso, quando la piattaforma Deepwater Horizon – piazzata da Bp sopra il giacimento di Macondo – si è incendiata e ha spezzato il cordone ombelicale con il pozzo a 1.500 metri di profondità. «Chi fa il nostro lavoro, è sempre stato fiero di contribuire al benessere della gente», dice David Payne, responsabile delle attività di perforazione alla Chevron, davanti a mille colleghi di 70 paesi riuniti nell’auditorium del Palazzo dei Congressi di Firenze. «Ma oggi l’opinione pubblica è critica nei nostri confronti. Dopo Macondo, dopo il 20 aprile, tutto è cambiato».
Payne è a Firenze per partecipare all’annuale riunione a porte chiuse dei clienti di GE Oil and Gas, ovvero quella che – prima della privatizzazione – si chiamava Nuovo Pignone, storica azienda fiorentina che nelle mani di General Electric è diventata l’hub di una rete planetaria a servizio del settore energetico. Il suo discorso è intitolato «La nuova realtà delle operazioni deepwater», in acque profonde. E qui tutti sanno di cosa sta parlando.
«Fra il 1971 e il 2009 – commenta Robin West, presidente di Pfc Energy, colosso della consulenza petrolifera – il Golfo del Messico ha prodotto quasi 25 miliardi di barili di petrolio, riversandone in mare appena 1.715, ovvero uno ogni 14 milioni: un bel risultato. Dopodiché abbiamo scoperto che, quando si parla di sicurezza, non bisogna mai compiacersi troppo».
La moratoria sulle perforazioni offshore imposta dall’amministrazione Obama è scaduta, ma le poche richieste di autorizzazione sono già state respinte con domanda di chiarimenti. Come dice West, le moratorie hanno riguardato anche Canada e Norvegia, mentre le barriere regolamentari si stanno alzando in molti paesi, Italia inclusa.
La risposta non può venire che dall’innovazione. Quella stessa innovazione che ha allargato i confini dell’esplorazione petrolifera dai pochi metri degli anni ’70 ai 1.500 e passa della Deepwater Horizon e di tante altre piattaforme – diciamo così – meno sfortunate.
«Già prima di Macondo – racconta Claudi Santiago, presidente e Ceo di GE Oil and Gas – avevamo cominciato a progettare un nuovo tipo di blowout preventer», il meccanismo di sicurezza che nella Deepwater Horizon non ha funzionato. «Avrà una serie di sensori e sarà equipaggiato con uno speciale software per la diagnostica remota, che derivano dall’esperienza del gruppo GE nell’aeronautica. Siccome siamo partiti per tempo, arriverà sul mercato già quest’anno».
Il sistema presuppone un costante flusso di dati, che scorrono criptati dalle profondità marine a un’indirizzo ip, ovvero sull’internet. Quindi, in teoria si potrà tenere d’occhio il blowout preventer anche da un iPhone. Il pubblico – curiosamente di casa a Firenze, dato che questo evento annuale si tiene sempre qui – applaude.
Perché bisogna parlarsi chiaro. Negli Stati Uniti la ferita è ancora aperta (come si racconta nell’articolo a destra) ed è facile che le regole si faranno più dure, per chi vuole andare a pescare petrolio a quelle insane profondità. Ma la domanda di idrocarburi è destinata a salire indefinitamente, le fonti di petrolio convenzionale hanno già raggiunto il picco (lo dice l’Aie) e la transizione verso un mondo senza combustibili fossili procede più lentamente di quanto lo stesso Obama sperasse.
«Venite a investire in Brasile, ci sono grandi opportunità», ripete Ricardo Juiniti, capo delle esplorazioni (anche offshore e anche deepwater) di Ogx, l’astro nascente del crescente business petrolifero carioca. «La nostra ambizione è fare della Malesia l’hub asiatico delle esplorazioni in acque profonde», assicura Bin Abdul Wahab, direttore di Petronas, il colosso statale malese. Come dire: l’effetto-Macondo non è lo stesso a tutte le latitudini.
Certo, dietro alla tecnologia ci sono gli uomini. «Sappiamo tutti – dice Jorn Peter Madsen, direttore generale della danese Maersk Drilling – che le piattaforme operano spesso in modalità override», ovvero continuano a funzionare mentre suona qualche allarme. «Bisogna ridisegnare le interfacce fra l’uomo e le macchine – conclude Payne – e semplificare le procedure. Ma in generale, siamo tutti chiamati ad alzare visibilmente gli standard di sicurezza».
Così, la curva dell’innovazione, già diventata ripida da dieci anni, con esplorazioni a profondità, temperature e pressioni impensabili, dovrà alzarsi ancora. È pane per denti tecnologici. «Qui – racconta Santiago durante una pausa dei lavori – lo sanno tutti: è stata la General Electric, su richiesta della Bp, ad eseguire l’operazione top kill che ha chiuso la falla nel Golfo del Messico».
Macondo non è l’epitaffio dell’industria petrolifera. Sarà fatalmente – magar con l’aiuto di sensori e microchip – un altro punto di partenza. Marco Magrini - L’ATROCE DUBBIO CHIAMATO COREXIT - Agli occhi del mondo, il dramma della Deepwater Horizon, la piattaforma Bp che si è incendiata sopra il pozzo Macondo rilasciando nel mare 4,9 milioni di barili di petrolio, si è concluso il 15 luglio, quando la falla è stata sigillata. Ma non certo agli occhi di chi abita lungo le coste della Louisiana. Sei mesi più tardi, ci sono ancora 5mila persone e 300 imbarcazioni al lavoro nell’ardua opera di pulizia: palle di catrame continuano a raggiungere le spiagge e una patina oleosa dipinge la vegetazione nelle paludi dove gli indiani Houma facevano i pescatori da generazioni.
Tuttavia, c’è qualcosa che nessuno può vedere: gli effetti del petrolio e dell’anti-petrolio nelle profondità del Golfo. L’anti-petrolio, per così dire, usato dalla Bp e dalla Guardia costiera americana non era nient’altro che una miscela di solventi, chiamata a sciogliere il greggio che sgorgava sotto a un chilometro e mezzo di mare.
Peccato che, a quanto si dice, nessuno sapesse con precisione gli effetti a lungo termine dei solventi in generale e, in particolare, del Corexit. Anzi, per la precisione, il Corexit 9500. Perché la versione precedente, il Corexit 9527, è stata bandita in quanto eccessivamente tossica.
«Tre mesi dopo la chiusura della falla – dice David Valentine, uno geochimico dell’Università della California – abbiamo scoperto che i solventi erano ancora lì, imprigionati nelle correnti sottomarine. E non solo erano ancora lì, ma non si biodegradavano rapidamente come molti avevano preventivato. Da allora, la concentrazione si è certamente diluita». Ma, oggi più che mai, nessuno sa con certezza quali effetti porterà sui delicati equilibri microbiologici della zona.
Bisogna ammettere che senza i solventi – iniettati sott’acqua ma anche sparati in superficie dagli aerei – i danni sulle coste dei cinque Stati americani affacciati sul Golfo sarebbero stati molto, molto più consistenti. Un recente studio del Lawrence Berkeley Lab sostiene che il petrolio rimasto sotto il mare si è disperso e degradato. Ma non tutti la pensano così. «A est di Macondo il mare è coperto da una costellazione di goccie di petrolio», assicura David Hollander dell’Università della South Florida.
In compenso, il solito Valentine asicura che il metano è scomparso. La scorsa estate, aveva rilevato che i livelli di metano erano 100mila volte sopra la media. Poi è tornato sul luogo del misfatto tre mesi dopo e non poteva credere ai suoi occhi: il metano non c’era più. Salvo poi scoprire, con una più attenta analisi, che le comunità di batteri che di metano si cibano si sono lanciati in un vero e proprio banchetto, fra l’altro riproducendosi con velocità.
Forse basta questo, per confermare che gli effetti del disastro della Deepwater Horizon e delle affannose contromisure per fermarlo, restano tutt’oggi ignoti e imprevedibili nel lungo periodo. Il 19 maggio, un mese dopo il dramma, l’Epa, l’agenzia americana per la protezione ambientale, aveva intimato alla Bp di smettere di usare il Corexit. Ma la compagnia inglese si è opposta: l’unica alternativa disponibile in larghe quantità era giudicata ancora più pericolosa e tossica per la vita marina. Così, il Corexit ha continuato a innaffiare la grande scia nera che sgorgava da Macondo. E qualche dubbio, rimane. m.mag.