Terry Marocco, Panorama 10/2/2011 (uscuta 4/2), 10 febbraio 2011
MARINA ABRAMOVIC: «IL MIO FUNERALE LO ORGANIZZO IO»
Marina Abramovic è un alieno. Arriva a Bologna dopo avere attraversato la tempesta di neve a New York, dopo ore di attesa all’aeroporto e altre ore di volo. Ed è riposata come dopo una vacanza. È stata lei quest’anno la guest star di Arte Fiera, dove ha portato il film delle sue sette performance più famose. Seven easy pieces, messe in scena al Guggenheim nel 2005.
Lady Performance, 64 anni portati gloriosamente, il corpo imponente avvolto da abiti neri, i capelli sciolti e lunghi come Rapunzel, con voce sensuale racconta a Panorama la sua ricetta per arrivare all’eternità: «Non si può organizzare la propria morte, ma il proprio funerale sì e io lo sto facendo. Dopo avere assistito a quello dì Susan Sontag, brutto e mesto, ho capito che se non volevo finire così dovevo pensarci prima». E così ecco il suo ultimo progetto: The life and death of Marina Abramovic, sontuoso show autobiografico realizzato dal regista Bob Wilson con il celebre Anthony che le dedicherà My way («Anch’io dovrò cantare e non l’ho mai fatto prima»), che andrà in scena 1’8 luglio prossimo a Manchester e sarà l’apoteosi di una vita da star. «Quando muori non ti puoi portare dietro nulla, l’unica cosa che puoi lasciare è una buona idea. Solo la buona arte ha molte vite».
Anche lei ha vissuto molte vite e le racconta in Lips of Thomas (Le labbra di Thomas), una delle sette performance che ha mostrato a Bologna. «L’ho fatta la prima volta nel ’75 e mi sono resa conto che 30 anni dopo riuscivo a sopportare meglio fatica e dolore». Si frusta per 7 ore, si sdraia nuda su una croce di ghiaccio e si incide con una lametta sul ventre una stella di David. «Il dolore è solo un fatto mentale, a 25 anni non si ha il controllo del proprio corpo né della propria vita d’altronde. Quello si acquista con gli anni. E poi oggi ho una diversa sensibilità, nel mio lavoro inserisco elementi spirituali, vicini al Buddismo. Tutte cose che allora non mi appartenevano».
Così zen da affermare a proposito di sentimenti: «Non penso più all’amore e sto bene. Arte e monastero: queste sono le mie priorità. Cioè, il mio lavoro e la mia crescita spirituale». Il Buddismo l’ha aiutata a capire e a vivere meglio quel dolore che è al centro di tutti i suoi lavori: «La sofferenza nasce dall’attaccamento alle cose, soprattutto alle cose che ci danno piacere. Quando soffriamo dobbiamo innalzarci rispetto al nostro dolore, come se fossimo su un aereo e guardassimo sotto la nostra vita. Solo così riusciremo a vedere le radia di quello che a fa soffrire». Ormai parla da guru dell’arte. «Non voglio essere considerata un guru. Sono una serva dell’arte, questo è il ruolo che mi piace di più». E così serve la causa travestita da Joseph Beuys, grande artista tedesco, mentre con il viso coperto d’oro parla e culla un coniglio morto.
«Le persone non cambiano nei momenti felici, cambiano solo attraverso il dolore, la malattia, i traumi emotivi. Io attraverso la sofferenza fisica davanti al pubblico. E so che loro pensano che, se riesco a farlo io, possono farlo anche loro». E così si sdraia su dozzine di candele accese. Ammette: «È la performance più difficile e dolorosa, l’ho ripresa da Gina Pane (artista performer degli anni ’70). Sette ore su un letto di supplizio».
Ma il dolore sembra scivolarle addosso, forse perché parte da lontano: «Ero una bambina brutta con i capelli tenuti da tristi mollette, vestita male e con un orrendo naso grosso che detestavo. Volevo averne uno come Brigitte Bardot, ma mia madre mi prendeva a sberle appena le chiedevo di potermi operare».
Decide di mettere in scena la sua prima performance. «Avrei aspettato la domenica. Sola in casa mi sarei legata al letto dei miei con una fune e avrei iniziato a girare in tondo fino a cadere e rompermi il naso. Immaginavo la corsa all’ospedale e io che, pronta, ai medici fornivo le foto di B.B.».
Lo fece, si ruppe lo zigomo, ma il naso restò intatto. E quasi come quello di Cleopatra finì per entrare nella storia.