Giuseppe Del Bello, il venerdì di Repubblica 4/2/2011, 4 febbraio 2011
COSA SUCCEDE IN SALA OPERATORIA QUANDO IL PAZIENTE DORME
Nella Patologia chirurgica dell’Università di Cagliari, diretta dal professor Egidio Tosatti, nelle calde estati degli anni Cinquanta si operava in boxer. Sì, in mutande sotto il camice verde. Preistoria della chirurgia, che ora fa sorridere. Dopo più di mezzo secolo, le attuali sale operatorie sono così tecnologiche da sembrare più una centrale spaziale che un luogo di cura. Come nell’ospedale Monaldi di Napoli, dove è un giorno di seduta ordinaria nel complesso cardiochirurgico. Ovunque il tenue verdolino del linoleum, il penetrante odore del disinfettante, sulle pareti i bracci meccanici delle tecnologie e gli altoparlanti che diffondono le note di Ancora tu.
Siamo in tredici: due anestesisti, quattro chirurghi, due strumentisti, due infermieri, due tecnici di circolazione extracorporea ed io (medico e giornalista, ndr). Adagiato sul letto, sotto la potente lampada scialitica, che illumina in modo
uniforme eliminando le ombre, c’è Carlo, 52 anni e una grave insufficienza cardiaca. Al quarto stadio Nyha, l’ultimo della
classificazione della New York Heart Association, non è in grado di compiere alcuna attività senza essere sopraffatto dall’affanno.
Adesso è in narcosi. Nel suo torace sta per essere impiantato un cuore nuovo. L’incisione della cute, che prelude al taglio dello sterno, dà il via alla maratona. Durerà circa sette ore. Nessuno fiata nel tempio chirurgico. Come all’inizio di un concerto, quando il maestro alza la bacchetta e il silenzio avvolge la sala. Pochi minuti e la tensione si allenta.
Il primario si informa sui tempi del viaggio del nuovo organo, mentre l’anestesista sistema sul telino verde il tubo del circuito del respiratore automatico. Lo stridore della sega elettrica a lama oscillante, che divide in due lo sterno, prende la scena ed evoca lavori domestici col trapano.
«Divaricatore» ordina il primario. Apre il torace come un sipario e incide il pericardio (la membrana che avvolge il cuore). Il cuore malato è nelle mani del chirurgo: è quasi sferico, con un
battito irregolare e appena visibile, ma ogni tanto viene scosso da una contrazione anomala. È il momento del cuore nuovo e si avvia la circolazione extracorporea. Bastano pochi colpi di forbici per liberare Carlo dal suo vecchio motore: la cavità vuota fa impressione anche agli addetti ai lavori. Ma dura giusto un attimo. Il cuore nuovo prende con autorità il posto principale nella vita del paziente. Il primario è un poco più disteso e ne commenta le condizioni. Insiste sulle cose da
cambiare nella gestione del reparto, ma parla anche di un film appena uscito. Chi dirige l’intervento, pilota anche la conversazione. Non è un mistero che in sala operatoria, mentre il malato è «sotto i ferri», i chirurghi parlino del più e del meno. E senza che per questo il paziente corra alcun rischio. Le discussioni che nascono intorno al tavolo operatorio raramente si accendono, a meno che non ci siano forti rivalità personali, o interessi economici.
Come fu per il caso clamoroso del Policlinico di Messina, che risale all’agosto scorso. Due ginecologi fecero a pugni mentre Laura, la partoriente, era sul lettino della sala operatoria di Ostetricia, col fiato sospeso e col neonato in grembo. Gelosie di mestiere, vecchi rancori, scriveranno il giorno dopo i cronisti.
Ma alla base del litigio ci sarebbe stato un motivo più prosaico: soldi. L’onorario, quasi sempre in nero, garantito dai pazienti al medico che effettua il «cesareo».
Il meccanismo, semplice e perverso, prevede che il ginecologo di fiducia programmi con precisione il momento della nascita, aggirando le sorprese della natura. I dati del 2008 confermano che l’Italia è al primo posto nella classifica europea, con il 38 per cento di cesarei sul totale dei parti. Maglia nera il Sud, con la Campania che sfiora il 62 per cento. Colpa della «strana commistione tra pubblico e privato», commenta Gianfranco Gori, consulente dell’Oms per il programma Making Pregnancy Safe, osservando che quando a tale commistione si aggiunge l’imprevisto (il parto prematuro) si genera una fatale confusione di ruoli che è una miscela esplosiva.
In controtendenza rispetto alle indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, che consiglia di non superare il 15 per cento, il trend dei cesarei continua a crescere, «con percentuali nettamente superiori alla media nazionale nei reparti con basso numero di parti e nelle strutture private» nota l’epidemiologa
dell’Istituto superiore di sanità Serena Donati. «In Campania, ma anche nel Lazio, in Calabria e in Sicilia» dice il ginecologo Carmine Malzoni, presidente del Gruppo Malzoni, struttura accreditata nel Comune di Avellino, «l’ostetricia, con l’abuso del cesareo, diventa privatistica anche negli istituti pubblici. A molte donne dicono, già al primo mese di gravidanza, “lei ha il bacino stretto”: ma come fanno a saperlo se non si conosce nulla del nascituro e del suo peso? Nella mia clinica abbiamo chiuso l’anno col 26 per cento di cesarei, ma potremmo ridurli al 14 se non fossimo un punto di riferimento delle gravidanze a rischio. Bisogna attenersi alle linee guida e rispettare il parto naturale che, tra l’altro, fa registrare un minore tasso di mortalità». Non solo ad Avellino, ma anche a Napoli, a Villa Betania (ospedale religioso accreditato), e al San Leonardo di Castellammare di Stabia vengono rispettate le percentuali di cesarei indicate dall’Oms. Ma nella maggior parte delle strutture le cose vanno in modo molto diverso.
Malcostume e carenza di etica non screditano comunque solo le sale parto. Nei complessi chirurgici può accadere di tutto. Dal prof che lancia per aria la milza appena tolta dall’addome del paziente, al direttore arrabbiato che si accanisce con una pinza sulle nocche delle mani del suo aiuto, fino all’ordinario del Nuovo Policlinico di Napoli, che qualche anno fa, durante un intervento, fratturò con una testata il naso a una specializzanda del terzo anno. «Non mi hai passato il ferro che ti avevo chiesto» l’accusò prima di colpirla. La ragazza venne portata al Cardarelli (nel Policlinico, nonostante i cospicui contributi regionali, non funziona il pronto soccorso), mentre il docente continuava il suo intervento. Situazioni estreme, espressione dei tempi?
«Il mio vecchio maestro, Pietro Quinto» ricorda Carlo Flamigni, luminare della ginecologia italiana, per decenni cattedratico a Bologna, «imponeva l’ossequio di chi gli stava di fronte. Un giorno uno degli assistenti assicurò che, qualora fosse stato insultato, se ne sarebbe andato su due piedi: poche ore dopo il direttore lo apostrofò “testa di c...”. Il collega non fece una piega e restò dov’era: lui, sostenne, aveva sentito soltanto “testa”. Si doveva essere pronti insomma a tollerare qualsiasi
angheria, rinunciando a impugnare il principio della dignità personale: chi aveva una postazione fissa in sala ope- ratoria aveva più possibilità di imparare e progredire».
Polemiche e malcostume appaiono però distanti dalla camera operatoria dove ora si sta concludendo il laborioso trapianto di cuore. I corpi stanchi dei chirurghi cercano di tanto in tanto posizioni distensive per far rilassare i muscoli. Nei volti di tutti si legge la trasformazione delle ansie in soddisfazione.