Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  febbraio 03 Giovedì calendario

Friedman Yona

• Budpaest (Ungheria) 5 giugno 1923. Architetto. Francese • «[...] leggendario architetto [...] “L’architettura”, spiega [...] “non deve servire ad occupare, con edifici sempre più costosi e spettacolari, le strade e le piazze di megalopoli sempre più disumane. E l’architetto dovrebbe smetterla di comportarsi come una star, tutto teso ad autoglorificarsi, o come una specie di Prometeo che porta la felicità alle masse. È dovere degli architetti ascoltare e dare voce alla fantasia di chi abiterà gli edifici che stanno costruendo. [...] Non mi piace criticare i miei colleghi. Ma è vero che molte di queste star sono pubblicizzate come Coca-Cola, e non son sicuro quale dei due prodotti - la bevanda o i loro edifici - sia migliore. Il rischio è che, a forza di spot, la gente ci passi davanti senza più notarla, questa superarchitettura. È un tipo di architettura che nasce sulla base di informazioni astratte e senza contatto con gli utenti. Progetti così sono la gioia del committente (ricco e potente) perché servono a confermare il suo status symbol. Si dimentica un fatto fondamentale: che il cittadino si sente più a suo agio in un piccolo caffè che nell’atrio di un megamuseo. È questa l’esperienza che faccio ogni volta che vado a Venezia [...] Non sono un nostalgico del villaggio medievale. Quello che propongo è il ritorno a un uso più intelligente dei materiali poveri. In questo senso le favelas non hanno nulla di pittoresco, ma sono un laboratorio di materiali, la prova di come la gente possa creare senza interpellare il presunto esperto, l’architetto. La Rete insegna poi che il fai-da-te è una tecnica di saperi praticata non solo nelle favelas ma anche nell’uso dell’elettronica più sofisticata [...] Io ho vissuto nel mondo povero del dopoguerra senza comfort. Ho imparato a vivere senza acqua corrente, senza riscaldamento ed elettricità e persino senza finestre. Sì, è la scarsità ad aguzzare l’ingegno. E la povertà è relativa: una favela può sembrare carina a un africano indigente e un povero americano è un milionario per altri poveri. Il mito di cui dobbiamo liberarci è che un giorno vivremo al di là della povertà: purtroppo, costruendo società riproduciamo anche la povertà [...] Io sono un realista: cerco di vivere nel mondo com’è provando solo a renderlo più accettabile. Per questo sono fautore di politiche che nascono dalle pratiche di gente che lavora, mangia e abita [...] nel 1957, quando mi avviavo per la mia strada della ‘città spaziale’ mi sentivo insicuro: con le mie idee mi allontanavo dalla comunità degli architetti. Ne parlai due ore di seguito con Le Corbusier e lui mi incoraggiò. Mi disse francamente, ‘non farei mai cose del genere, ma lei Friedman prosegua per la sua strada; si troverà contro tutti, ma non importa’. Ognuno deve andare avanti per la sua strada: questo è l’insegnamento di Le Corbusier, che era molto arrabbiato con tutti coloro che ricopiavano il suo stile. Aveva ragione lui: il bello dell’architettura sta nella sua continua trasformazione, e in quella dei suoi edifici” [...]» (Stefano Vastano, “L’espresso” 3/9/2009) • «Quale architetto il mio problema è capire come assumersi la responsabilità di progettare un palazzo sapendo poco o nulla dei suoi fruitori. E capire quando è il momento di fermarsi per lasciare spazio alle loro scelte [...]» (Alessandra Iadicicco, “La Stampa” 9/12/2009).