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 2011  febbraio 02 Mercoledì calendario

UN UOMO GRIGIO, NATO NELL’«APPARATO». STORIA DEL PILOTA DIVENTATO PRESIDENTE

Se siamo onesti dobbiamo ammettere che esistono le pulsioni del cuore e i tormenti della mente. Il cuore palpita per i coraggiosi ragazzi del Cairo, la mente non può dimenticare i capelli bianchi che impongono prudenza e assoluta onestà intellettuale. Non è giusto gettare l’ombra dell’infamia politica su Hosni Mubarak: un uomo, magari discutibile, che ha saputo per 30 anni essere la bandiera di un Islam moderato contro i brutali eccessi di un fanatismo insopportabile e pericoloso. Era al fianco di Anwar Sadat, ammazzato da terroristi islamici durante una parata militare. Terroristi, probabilmente inviati da quel campione di democrazia che è il colonnello Muammar Gheddafi, inviati a punire l’uomo che aveva osato fare la pace con Israele. Leggere, come ci è accaduto ieri su Haaretz, che l’ex ministro israeliano Moshe Arens descrive come dittatori sia Sadat sia re Hussein, il primo che firmò la pace per l’Egitto e il secondo per la Giordania, è francamente difficile da accettare. Mubarak non è di certo un eroe, è un uomo grigio che ha sicuramente pregi e difetti. Quando raccolse l’eredità del suo predecessore era un militare di buona fama, che però non era considerato un vero leader. Lo è diventato, con l’aiuto di quell’apparato militare dal quale proveniva, come esperto pilota dell’aviazione. Gli è toccato gestire l’immenso patrimonio etico e sostanziale del suo predecessore. Lo ha gestito con onore, confermando il trattato di pace con Israele; ammantando di realismo l’approccio «glaciale» della sua opinione pubblica, che non ha mai digerito quella pace. Si è trasformato nell’alfiere di quel mondo arabo moderato che proprio gli estremisti di Al Qaeda contestano, ma che è vero, vivo, ed esiste davvero. Ha impedito che le forze del fanatismo prevalessero: per chi ha la memoria corta ricordiamo le spaventose stragi degli anni 90, compiute al Cairo, a Luxor e altrove; ha dato all’Egitto un ruolo internazionale e una credibilità invidiabili. Certo, ha utilizzato gli strumenti peggiori per mantenere il potere, ricorrendo all’oppressione più dura e non rispettando i diritti umani. Ma in questo era sostenuto da quell’Occidente che lo ha considerato, fino a una settimana fa, l’unico interlocutore possibile. Una garanzia. Forse troppi hanno dimenticato che quando fu firmata la pace di Camp David tra Israele e l’Egitto, quest’ultimo fu emarginato dalla Lega araba come un membro traditore. Con il tempo e con la costanza, Mubarak è riuscito a riconquistare la fiducia dei fratelli. E la sede della Lega è tornata nel suo alveo naturale, appunto il Cairo. Quando Yasser Arafat fu costretto a scappare dal Libano, Mubarak decise di riceverlo. Ma in questo caso il favore più grande non lo fece Mubarak ad Arafat ma Arafat a Mubarak, perché scegliendo di fermarsi in Egitto, sulla via dell’esilio tunisino, il leader palestinese offriva al fratello egiziano una patente di affidabilità araba. Che portò poi al rientro trionfale del Cairo nella Lega. Mubarak è un emotivo. Durante gli incontri e le interviste ufficiali si lascia spesso condizionare dalla propria naturale predisposizione nei confronti dell’ospite. Ricordo quando, da esperto pilota, mi fece la descrizione di quello che è acceduto alle Torri Gemelle di New York. Ma è anche brutalmente sincero. Quando gli chiesi che cosa si poteva fare con Hamas, mi rispose ricordando un incontro con il premier israeliano Yitzhak Rabin, pochi mesi prima dell’assassinio del premier di Israele. «Mi chiese Rabin: "Presidente, cosa facciamo con Hamas?". Risposi: "Ma l’ascesa di Hamas l’avete favorita voi". Rabin abbassò la testa: "Purtroppo è il più grave errore che abbiamo commesso"» . Ora ha detto che intende dimettersi, e quindi lasciare il potere, alla fine del suo mandato, nel prossimo settembre, quando si svolgeranno le elezioni presidenziali. È difficile immaginare se questa volontà verrà rispettata. Di sicuro Mubarak ha visto svanire la possibilità di vedere sul «trono» il figlio Gamal, ma ha comunque fatto la mossa — che non aveva voluto fare per 30 anni — di nominare un vice: quell’Omar Suleyman, che non è soltanto il garante delle Forze armate ma della continuità di un regime che deve garantire all’intera regione il bene della stabilità. La spinta a cercare la strada di un realistico sviluppo della situazione è arrivata proprio ieri sera, mentre ancora regna grande confusione: non tanto e non soltanto sulla volontà di chi ha animato la rivolta, ma sulle forze che dovranno traghettare il Paese verso il futuro.
Antonio Ferrari