Mario Ajello, Il Messaggero 2/2/2011, 2 febbraio 2011
I ROMANI ASPETTANO LA GRANDE SVOLTA FRA DUBBI E FATALISMO
«Il federalismo? Ma non è una cosa che dovevano arivà i soldi a Roma? Poi so’ arivati?». Questa è la vocina simpatica di un’anziana signora, al mercato del Trionfale. Il federalismo in salsa pop, nella settimana in cui su questa legge si decide in Parlamento il futuro del governo e della legislatura, corre sulle bocche dei romani semplici, dei cittadini a passeggio, di quelli che fanno la fila in Circoscrizione: «Se arriva il federalismo, basta code agli sportelli?».
Ci sono gli Apocalittici («Qua sta a zompa’ l’Italia!»); gli Anti-Umbertini («Il federalismo va pure bene, ma non può farlo Bossi»); i Curiosi («Stamo a vede’, ma famo a capisse: il Nord non se ne deve approfittare»); i Fiscalisti («Basta che non aumentano le tasse. Ma davvero non aumenteranno?»); i Rigoristi («Ben venga, così ce damo ’na regolata tutti quanti e la finiamo di buttare via i soldi»); i Fatalisti («Tanto non si farà mai, e ora casca pure il governo»); gli Sbeffeggianti (dice con sorriso impertinente un macellaio del quartiere africano a un cinese che lo aiuta: «Jin, che ne pensi del fedelalismo? Poi si farà pure un lefelendum?» e Jin risponde con uno sguardo assente); e infine i SuperQuiriti («Va bene tutto, ma Roma non si tocca. La Capitale deve restare qui. Hanno fatto pure la legge che ci dà più soldi, e guai a chi ce li tocca»).
Massimo, che vende frutta e verdura al mercato di piazza Gimma, spiega: «Il federalismo è una cosa buona. Lo Stato si deve mettere in testa che deve decentrare, perchè più la spesa è decentrata e più è controllabile. Però Bossi la smetta di provocare e Calderoli si metta i calzini. Gira a piedi nudi pure d’inverno». Carlo, anche lui fruttivendolo: «Che cos’è il federalismo? E’ una legge che vogliono fare quelli del Nord». Sopra il mercato c’è la sede del II Municipio. Via vai di gente. Gli impiegati non vogliono parlare di federalismo («E’ politica, e senza autorizzazione non possiamo aprire bocca»), ma qualcuno lo fa in maniera anonima e molto competente: «E’ una buona occasione, per unire l’Italia attraverso meccanismi di responsabilizzazione che elevino l’efficienza e la qualità della spesa. Senza però penalizzare i più deboli». Parole di tipo politologico. A cui seguono i dubbi pop le persone in fila: «Ma il Comune di Roma funzionerà meglio? Spariranno le buche in mezzo alle strade? Torneranno i vigili agli incroci?».
Non è che Roma si aspetti granchè, nè di bene di male, dalla madre di tutte le riforme leghiste. Però gli Apocalittici - come Tommaso, ex autista, disoccupato e adesso edicolante part time al Flaminio - imperversano: «Ci troveremo impicciati co’ i conti. I Comuni, per rientrare sui soldi, aumenteranno le tasse su tutti i servizi pubblici. Noi, nel Lazio, già abbiamo un grande deficit e a questo deficit s’aggiungerà altro deficit». Oddio!
Al mercato di Via Alessandria, sono tutti d’accordo: «Milanesi non diventeremo mai!». Qualcuno cade dalle nuvole, e dice: «Il federalismo? Ma non l’avevamo già fatto?». Che è una, inconsapevole, variazione della vignetta di Altan, dedicata al pluridecennale bla bla sulla politica del fare. C’è un ometto, in posa berlusconiana e con banana in mano, che annuncia: «E ora, le riforme!». L’amico risponde: «Ma non le avevamo già fatte?».
Manca l’attesa del miracolo, ecco. Miracolisticamente, i conti delle città riemergeranno dal loro profondo rosso? Miracolisticamente, le regioni settentrionali diventeranno solidali con le altre? Miracolisticamente le regioni meridionali smetteranno di sperperare il denaro pubblico in dipendenti, servizi e prestazioni varie? Miracolisticamente, tutti i bilanci andranno in pareggio? Sono i dubbi che girano. Le domande che ci si fa. Come questa, da Italia non ancora federale e che riguarda maccheronicamente i costi standard: «Non ci credo - osserva un impiegato della Asl di Piazza Gentile da Fabriano - che a Milano una flebo costa di meno e a Roma costa di più. Lì costa tutto il doppio, e la flebo costa la metà?».
La Capitale, insomma, aspetta la svolta dell’Italia federale con il proverbiale scetticismo che le appartiene. Ma senza fare troppe tragedie. Si è convinti che l’Italia magari cambia, ma Roma resta sempre Roma. E Calderoli può pure continuare a non portare i calzini.