Andrea Gualtieri, Avvenire 2/1/2011, 2 gennaio 2011
SANITÀ IN CALABRIA
2mld il buco della sanità
21,5% I cittadini ospedalizzati in un anno (in Friuli Venezia Giulia sono il 14,8%)
6,8% I pazienti che in Calabria tornano a farsi ricoverare entro un mese per lo stesso problema (5,4% la madia nazionale; 3,2% in Piemonte la regione migliore)
277mila euro la spesa lorda pro capite in Calbria (in Toscana è di 175mila)
A Bolzano una frattura al femore viene operata entro due giorni per otto pazienti su dieci, in Calabria i fortunati sono appena due su dieci. E se in Toscana ci si presenta in ospedale con una diagnosi che richiede un intervento alla colecisti, nel 49% dei casi i medici procederanno in laparoscopia, causando fastidi ridotti al paziente: nei nosocomi calabresi, invece, questa soluzione meno invasiva viene adottata solo nello 0,8% dei casi. Non è scontato quindi ciò che monsignor Luigi Cantafora, vescovo di Lamezia e presidente della commissione per la pastorale della salute della Conferenza episcopale calabra, ha affermato durante il convegno regionale di Caritas Calabria che si è svolto a Falerna, in provincia di Catanzaro: «La salute da non perdere non è un favore, ma un diritto », ha detto il presule, aggiungendo che «la Chiesa desidera che gli ospedali pubblici funzionino tutti bene e che i servizi sanitari privati diano il meglio di sé».
In Calabria la sanità è diventata ormai la prima emergenza sociale tanto che il debito pubblico accumulato rischia di paralizzare l’intera regione. Il disavanzo – quantificato al termine di un iter controverso – ammonta a due miliardi di euro: lo Stato, per arginare la falla, ha deciso di commissariare la gestione di Asp (aziende sanitarie provinciali) e ospedali e di congelare tutti gli altri fondi destinati al territorio. Ai delegati Caritas il dirigente vicario del dipartimento alla Salute, Gianluigi Scarfidi, ha spiegato che Consiglio e Giunta regionale adesso «non possono più legiferare sulla sanità e si trovano nelle condizioni degli scolari che tutte le settimane devono portare a Roma i compiti da far revisionare ». Compiti che, tra l’altro, sono davvero gravosi. Si tratta di chiudere alcuni ospedali, riconvertirne altri, razionalizzare la spesa. Con il corollario di tensione che ne deriva sul territorio: a San Giovanni in Fiore il consiglio comunale è caduto e si è arrivati alle mani causando reazioni allarmate persino a Montecitorio, dove il caso è stato seguito in tempo reale; a Cariati la statale 106 Jonica è rimasta interrotta per 11 giorni per una protesta dei cittadini che ha paralizzato tutta la dorsale orientale della regione; sull’alto Jonio cosentino 16 sindaci hanno incontrato il presidente della provincia di Matera e hanno addirittura avviato le procedure per la secessione in seguito alla chiusura dell’ospedale di Trebisacce. «L’unica via d’uscita è disattivare i presidi che non erogano vera sanità», ha affermato Scarfidi.
E che il sistema sia tutto da registrare lo hanno confermato anche i dati forniti a Falerna dal docente dell’Università della Calabria Renato Guzzardi. Quello relativo alla migrazione verso ospedali di altre regioni, ad esempio, testimonia che i calabresi non si fidano delle loro strutture, tanto che ogni anno sono 50mila coloro che si rivolgono fuori regione, con un costo per i bilanci pubblici di 250 milioni. Ma a proposito dei soldi, don Ennio Stamile, delegato regionale Caritas, ha evocato un parallelo evangelico ricordando che il buon samaritano offre due denari all’albergatore perché si prenda cura dell’uomo bastonato: «In Calabria – ha commentato – il fiume di denaro pubblico è stato speso secondo una logica che la commissione d’indagine Riccio-Serra ha definito “metodologia dell’inefficienza”. E ora si deve porre rimedio con il rischio di perdere di vista il diritto alla salute sancito pure dalla Costituzione». L’allarme è stato rilanciato alla platea Caritas anche dai responsabili delle case di accoglienza: tra ritardi nei rimborsi e tagli alle rette, rischiano di veder chiudere i loro centri in tutta la regione. Ecco perché il vescovo Cantafora ha affermato che «la riorganizzazione che sogniamo non è un mero tagliare, ma una riqualificazione che serva davvero il bene di ciascuno, anche di chi vive in zone montane».