Gilberto Oneto, Libero 2/2/2011, 2 febbraio 2011
LA HIT PARADE DEI PADRI DELLA PATRIA
La colonna sonora del Risorgimento è fatta principalmente da una compilation di brani di opere famose. Le più note arie liriche hanno accompagnato le vicende unitarie, i volontari garibaldini le gorgheggiavano con la famigliarità con cui i giovani d’oggi maneggiano gli iPod.
Anche per tutto questo nella più collaudata iconografia unitarista si è costruita una sorta di tetramorfo patriottico del melodramma, composto dalle opere di Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti, Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi.
Agli stessi musicisti si è finito, per traslazione, per affidare ruoli di ispirazione politica, in verità piuttosto impropri.
Bellini e Donizetti non possono essere coinvolti più di tanto per ragioni cronologiche: sono entrambi scomparsi prima del 1848.
Più pertinente è invece la lettura in chiave politica degli altri due.
Soprattutto Verdi è spesso indicato come il vero autore delle musiche di fondo più importanti del Risorgimento, anche se il ruolo fortemente allusivo di alcune delle sue opere è il risultato del lavoro del librettista più che del compositore. Sono soprattutto i testi di Temistocle Solera, intellettuale neoguelfo, ad avere la maggior carica evocativa, anche se secondo Giorgio Rumi la trama del Nabucco era più allusiva, ad esempio, a una funzione nazionale degli Asburgo che dei Savoia.
Il ruolo di aedo patriottico di Verdi è stato principalmente creato da altri e lui lo ha accettato forse con sincero entusiasmo ma anche con straordinario senso dell’opportunismo: era troppo impegnato nel suo lavoro, nella sua carriera e negli interessi anche concreti che ne derivavano per considerare gli impegni politici in maniera molto diversa da un utile supporto alle sue aspirazioni artistiche. Nei suoi melodrammi ha scritto Giuseppe Tarozzi «c’è musica e parola e morale per tutte le borse». Giova in questo senso ricordare che il Nabucco era stato dedicato nel 1842 da Verdi a Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena e I lombardi alla prima crociata l’anno successivo a Maria Luigia d’Asburgo, duchessa di Parma. Tutto molto ben misurato.
Solo sull’entusiasmo del 1848 Verdi ha compiutamente abbracciato la causa unitaria: il suo primo contributo musicale davvero “impegnato” è infatti venuto solo nel 1849 con La battaglia di Legnano.
Un gran borghese
Era un uomo molto sveglio e intelligente, voleva l’unità ma non era un rivoluzionario, era piuttosto un borghese negli atteggiamenti esterni e nella politica, che viveva il Risorgimento con lo stesso spirito del principe Fabrizio Salina, il Gattopardo, e che declinava in termini musicali il moderatismo con il suo reiterato disegno del “torniamo all’antico”.
La sua passione politica è durata poco, si è riconsegnato subito ai suoi impegni di lavoro e alla sua complicata relazione con Giuseppina Strepponi. Nel 1861 Cavour lo aveva fatto deputato nel primo Parlamento
nazionale: ci è andato pochissimo, era un grande assenteista e alla fine del mandato non si è ricandidato.
Il carattere del suo ruolo politico è perciò tutto nella forza simbolica che è stata affidata alle sue musiche e al fortunato caso che ha permesso al suo cognome di diventare l’acronimo di “Vittorio Emanuele Re D’Italia”, per cui scrivere o urlare “Viva Verdi” diventava un modo neppure troppo criptico di manifestare un’idea politica. È però un marchingegno inventato da qualche cronista fantasioso e quasi certamente ex post: raccontare che il grido avesse una funzione rivoluzionaria al debutto del Nabucco è un falso molto patriottico e altrettanto patetico. Il re di Sardegna era allora Carlo Alberto e Verdi avrebbe dovuto chiamarsi Cardi.
Rientra nelle strane ironie dei destini storici il fatto che il coro del Nabucco sia diventato un secolo e mezzo più tardi l’inno di un partito antiunitario che lo utilizza con finalità simboliche simili nei contenuti (il lamento per la patria perduta) ma del tutto opposto negli obiettivi politici.
Per il quarto dei grandi musicisti, Gioacchino Rossini, il ruolo di aedo patriottico è molto decisamente fuori luogo. Rossini è sempre stato un feroce avversario del Risorgimento e dell’idea di unità politica d’Italia, su cui ironizzava ritenendola «un’autentica scemenza» e considerando «più proficua la tutela austriaca».
Esilio volontario
Alla caduta dello Stato della Chiesa di cui era suddito si è trasferito definitivamente all’estero scegliendo un volontario esilio piuttosto che l’accettazione di una patria che non sentiva sua e nella quale si è in seguito sempre rifiutato di rimettere piede. Morto a Parigi, è stato riportato in Italia solo nel 1887 per essere sepolto a Santa Croce subendo lo stesso destino di un altro illustre esule antiunitario, Carlo Cattaneo. La
sua posizione è stigmatizzata come esemplare di una certa parte della società italiana anche dallo storico Denis Mack Smith, che ha scritto che «Giacchino Rossini, rimase fino all’ultimo convinto della necessità di una presenza austriaca nella penisola e dell’impossibilità di una nazione italiana».
Verdi e Rossini erano molto diversi fra di loro, non solo per le posizioni politiche o per il divertente contrasto del cromatismo semaforico dei loro cognomi, ma anche negli stili di vita.
Verdi sembrava voler imitare anche nell’aspetto, nell’abbigliamento e nei modi di vita il suo mentore ideologico Mazzini: aveva sempre secondo i cronisti contemporanei l’aria sofferta del predicatore protestante. Rossini invece era un simpatico bon vivant, cultore della buona cucina e delle robuste bevute in compagnia; era grande amico del famoso chef Antonin Carême, che gli ha dedicato alcune delle sue ricette, fra cui i Tournedos e i Petti di pollo alla Rossini, appunto. Inoltre il musicista aveva composto arie per piano intitolate ad antipasti e dessert. Fra le frasi più famose che gli vengono attribuite è bello ricordare: «L’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore».
Il confronto fra i due è quasi il paradigma della contrapposizione dell’idea della patria organica, fisica, che si percorre e mangia e di quella teorica, ideologica e intellettuale: la stessa differenza teorizzata da Charrette («la patria dei vandeani è sotto i loro piedi, quella dei giacobini nella loro testa») o da padre Taparelli D’Azeglio («la patria reale» a fronte de «la patria nominale»). La stessa che da sempre c’è fra le “piccole patrie” identitarie che resistono a tutte le sciagure della storia e le “patrie-nazione” che di tutte le sciagure sono l’origine.
Verdi oggi sarebbe leghista e non solo perché è suo l’inno leghista.