Khaled Fouad Allam, Il Sole 24 Ore 3/2/2011, 3 febbraio 2011
GLI ARABI ALLO SPECCHIO OCCIDENTALE
Quando nel 1798 Napoleone Bonaparte sbarcò ad Alessandria d’Egitto, tenne un celebre discorso alle sue truppe: raccomandò di rispettare, come in Francia si rispettano i rabbini, la religione dei musulmani. Iniziò così il primo grande incontro del mondo arabo e islamico con l’Occidente moderno. Mentre quel mondo era ripiegato su se stesso, l’Europa trionfava: aveva alle spalle la rivoluzione francese, i Lumi, la secolarizzazione, il diritto civile. Il mondo arabo era ignaro di tutto ciò, si trovava impotente e sottomesso all’impero ottomano che governava quasi tutto il Medio Oriente e una parte del Maghreb; e scoprì l’Europa come una liberazione, vedendo in essa la possibilità di emanciparsi dalle condizioni disastrose di quel momento storico.
Dall’altra parte, anche l’Europa credeva nella possibilità di uno scambio proficuo fra Islam e Occidente. Molti ignorano che il movimento dei saintsimoniani, i cui aderenti provenivano in gran parte dalla scuola d’ingegneria del Politecnico, credeva a un incontro fruttuoso. Certo, Napoleone era un politico: era andato in Egitto in primo luogo perché la modernità europea cercava nell’antichità le radici del proprio progresso: l’Egitto dei faraoni, come la Grecia antica, faceva parte di quel progetto, di quella visione progressista delle civiltà. In secondo luogo, l’Europa aveva capito benissimo come la posizione del mondo arabo fosse strategica per le rotte commerciali, grazie al canale di Suez, il Mediterraneo, l’Atlantico. Per tutto il XIX secolo, la potenza europea era indivisibile dalla sua attività nel Mediterraneo arabo. A Trieste, al Museo Revoltella, c’è un bellissimo quadro che rappresenta i lavori per realizzare il canale di Suez; le Assicurazioni Generali, nate a Trieste, contribuirono in gran parte al finanziamento di quel progetto.
La seconda metà dell’800 fu un’epoca intensa, in cui il mondo arabo, a partire dal Cairo, credeva realmente al cambiamento e alle riforme. Una delegazione dell’Università di Al Azhar fu inviata presso l’Università di Parigi per capire, studiandola, come l’Europa avesse potuto compiere quei passi verso la modernità. Possiamo rileggere le impressioni dei delegati, cogliendo lo sguardo di un arabo dell’800 sulla modernità europea dell’epoca, nel libro L’oro di Parigi di Tahtawi.
Non è vero, quindi, che il mondo arabo e islamico è stato refrattario all’emancipazione e al progresso. Le riforme chieste oggi a gran voce dalle folle nelle piazze arabe sembrano riecheggiare le riforme abortite quasi un secolo e mezzo fa. Abortite perché il progetto di modernizzazione è stato bloccato da vari fattori: a monte di essi vi è la crisi dell’impero ottomano, un impero ormai vecchio e stanco, incapace di trovare le energie per rinnovarsi anche se aveva varato le sue riforme (le Tanzimat). E non è un caso se i due ultimi grandi imperi muoiono a pochi anni di distanza: l’impero austroungarico nel 1918; quello ottomano nel 1922, con la rivoluzione di Ataturk. Il mondo arabo, fino a quella data, si trovava sotto il giogo dei turchi ottomani che ormai erano visti dagli arabi come la causa del loro ritardo, della loro arretratezza.
A Parigi e a Londra quella delegazione araba aveva capito che la modernità occidentale proveniva anche dall’invenzione della nazione, ma non aveva capito - o aveva sottovalutato - che la nazione è il prodotto di un’evoluzione storica, filosofica e religiosa. Negli anni 20 e 30 del 900 la nazione appare al mondo arabo come il vettore più veloce per approdare a quell’emancipazione che non avevano ancora conquistato. Ne risultò il nazionalismo arabo, un miscuglio di aspirazione a una supremazia etnica e di ambiguità religiosa, che si tradusse però in una forza politica in grado di conquistare il cuore delle masse arabe. Ma proprio quando si apprestava a realizzarlo, il mondo arabo si trovò a fronteggiare la questione di Israele; in seguito, il ruolo del petrolio in molti paesi arabi ha trasformato le economie reali in economie drogate, e le élite politiche in autentici predatori.
E mentre cresceva il nazionalismo arabo, con Nasser e il partito Ba’ath, qualcuno individuò nella distruzione del califfato ottomano l’origine del male che percorreva il XX secolo: gli arabi e i musulmani sarebbero rimasti prigionieri della decadenza e dell’arretratezza perché, allontanandosi dalle strutture politiche portanti dell’Islam, come il califfato, la Umma (comunità dei credenti) islamica sarebbe stata sempre preda delle ambizioni occidentali. I Fratelli musulmani teorizzarono quindi, a metà degli anni 30, il ritorno a un califfato - arabo, non più ottomano - come unico progetto politico in grado di salvare la Umma. Oggi essi non postulano più il califfato, ma teorizzano la necessità di uno stato islamico, uno stato della shari’a; solo al-Qaeda continua a rivendicare il califfato.
Ma alla metà del 900 erano francesi e inglesi a dividersi il mondo arabo. Agli accordi di Sykes-Picot del 1916 seguì la formazione degli stati moderni e l’affermarsi del nazionalismo arabo, una costruzione schizofrenica perché da una parte sogna una nazione araba senza frontiere - progetto nato morto - e dall’altra una nazione moderna, emancipata, indipendente, ma che non è mai riuscita a diventare tale. Ciò cui si è arrivati sono invece élite lontane dai loro popoli, e governi predatori che si sono arricchiti e poi, impauriti dalla minaccia fondamentalista, hanno lasciato libero corso a un’islamizzazione cieca e crescente della società. Tutto questo oggi è stato scardinato: perché la questione democratica nel mondo arabo, anche se assediata da enormi pericoli - fondamentalismo, terrorismo, autoritarismo - è la questione centrale del XXI secolo.