C LAUDIO G ALLO, La Stampa 2/2/2011, 2 febbraio 2011
Cairo, rose sui blindati e due milioni di “no” - Piazza Tahrir straripa di persone con bandiere e cartelli, le vie intorno sono fiumane formicolanti, che sparano in cielo assordanti cacofonie di slogan, urla e canzoni
Cairo, rose sui blindati e due milioni di “no” - Piazza Tahrir straripa di persone con bandiere e cartelli, le vie intorno sono fiumane formicolanti, che sparano in cielo assordanti cacofonie di slogan, urla e canzoni. In teoria ci sarebbe il coprifuoco. Ce l’hanno fatta: ieri tutti giuravano che sarebbe sceso in piazza un milione di persone, ma lo intendevano come un augurio. Invece oggi, che spettacolo. Il cuore del Cairo ha gridato per tutta la giornata «Erhal erhal ya Hosni», vattene vattene Hosni Mubarak. Saranno due milioni, forse più. Lo stesso nelle altre grandi città, da Alessandria a Suez. Nessun incidente, nessuna violenza, con l’esercito in versione buonista e la polizia nelle caserme. Calata la notte, il faraone era ancora al suo posto ma, pressato da Washington, ha detto in tv che non si ricandiderà. La piazza segna un punto ma la partita resta aperta. Una vittoria parziale e una grande incognita. Mentre il segretario della Lega Araba Amar Mussa si prepara a scendere in campo come salvatore della patria, le masse dei sanculotti e della media borghesia rischiano di far la fine dell’Onda Verde iraniana di due anni fa. Cortei oceanici ma obiettivi politici vaghi. A furia di manifestare come pesci in un acquario si logorarono, mentre il Palazzo terminava senza fretta il lavoro sporco della repressione. Allo stesso modo il regime egiziano si prepara a resistere anche senza Mubarak. In più, il Paese si ritrova con un’opposizione ingessata e senza alcuna esperienza di governo. È presto per dire che sarà così, ma il pericolo incombe. Lontani i ricordi del tragico venerdì scorso con i morti ammazzati, è stata una kermesse popolare. Fin dal mattino un cordone di ragazzi perquisiva con zelo cortese chiunque cercasse di entrare nella piazza del Museo Egizio, a caccia di armi e di agenti provocatori. I soldati sorridevano, sognando di cospargersi di vernice invisibile. Nella notte qualcuno aveva riempito i loro blindati di scritte anti-Mubarak, frettolosamente coperte. Che ne pensano di questa gente? Il fante con il kalashnikov toglie la sigaretta di bocca per dire qualcosa, ma arriva un ufficiale che fa: «Non possiamo parlare, si allontani, per favore». Al fondo della piazza, Muhammed Munir dirige un improvvisato centro stampa costituito da un banchetto e tre sedie di plastica bianca davanti al grande negozio di elettronica Bana, ovviamente chiuso. Corpulento, somiglia incredibilmente al Sergente Garcia di Zorro. «L’esercito sta proteggendo il popolo», dice. Ma l’esercito, non sta col vicepresidente Omar Suleiman? «Suleiman, El Baradei, chiunque è meglio di Mubarak». La folla esplode. Un pulmino granata con dentro una decina di soldati sta fendendo la massa inferocita. Ha il lunotto sfondato. Un militare si sporge dal finestrino, un dimostrante gli afferra il braccio e quello si arrabbia come un pazzo. Alla fine il mezzo riesce a passare in salvo dietro le transenne sorvegliate dagli M113. La gente cresce di minuto in minuto, le strade laterali sembrano affluenti che scaricano flussi di esseri umani nel lago centrale della piazza. A tratti è come passare attraverso gli stand di una enorme fiera: i gruppi più diversi si aggregano a scandire i loro slogan. Il rumore spacca i timpani, non si sentono le telefonate. «Nel nome di Allah, i nostri ragazzi continueranno a lottare», intona un mannello di islamici. Sorvola il raduno un elicottero francese della polizia, sostituito nel pomeriggio dal solito Mil russo. A tratti è come essere dentro un trattato di sociologia: ci sono i poveracci, i poveri, la classe media, donne, uomini, giovani e vecchi, musulmani e copti. Forse mancano solo le classi alte, rappresentate al massimo da qualche leader dell’opposizione. C’è un senso di commovente solidarietà, se uno buttasse via il portafoglio, glielo riporterebbero immediatamente. Si è sempre più stipati, diventa difficile muoversi. Il poderoso calore animale dei corpi compressi toglie il fiato. Nella varietà innumerabile dei cartelli, ce n’è uno in italiano o quasi. Dice: «Mopark, ma no capito che deve andare fare in co...?». Lo solleva Hashe Said Manzù, egiziano de Roma, cinquantasei anni, giacca e pantaloni jeans, capelli bianchi e ricci. Ma chi la capisce quella scritta? «Embè? Lo tengo per i pochi italiani che stanno qui». Si gira e si allontana, sul retro del cartello c’è scritto «Vatene». Passa accanto un imam, cammina gridando slogan come un giradischi rotto e si filma con il cellulare. Più in là una ventina di ragazzi con gli striscioni improvvisa una recita per un allampanato danese della televisione di Stato col caschetto biondo. Uno dice al vichingo: «Che slogan vuoi che facciamo?». Non sa, allora gli sparano un bel «Mubarak vai in Israele». Così quelli a Copenhagen proveranno un brivido. L’opposto della troupe della televisione egiziana, che al mattino filmava la piazza nel punto più vuoto, per denigrare la manifestazione. Qualcuno ha piazzato delle rose sui blindati che stanno a metà della piazza, e legato una bandiera egiziana sulla canna della mitragliatrice. Stanno arrivando sacchi di brioches (Maria Antonietta sarebbe orgogliosa) e cartoni di acqua minerale. Al centro della calca è come stare in un bagno turco. Il sudore riga copioso i volti, ma nessuno ci fa caso: oggi si fa l’Egitto. Ma se dopo Mubarak viene Suleiman? Una donnina che sta sull’aiuola quasi mi salta al collo. Porta un chador marrone da cui escono due occhi inviperiti pieni di kajal. «Sono tutti uguali - strilla -. Non vogliamo più nessuno di questo regime. È una cricca al soldo degli americani. L’Egitto agli egiziani». Scrosciano gli applausi qualche centinaio di metri più avanti. Dicono che sia arrivato El Baradei. Impossibile attraversare il muro di corpi che ci separa dalla presenza virtuale del premio Nobel. Incrociamo però Ayman Nour, la figura più dignitosa dell’opposizione, quarant’anni, il più giovane senatore della Repubblica, quattro anni di galera alle spalle. Vestito grigio scuro, cravatta grigio chiaro, sembra un vecchio notaio con gli occhiali spessi. E se finisce come a Teheran 2009? «Non credo - dice -, ogni giorno che passa porteremo più gente in piazza. E noi abbiamo già ottenuto una vittoria».