Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  gennaio 31 Lunedì calendario

IL MONDO SALVATO DALLE TIGRI AFRICANE


Al World Economic Forum il tema della diseguaglianza ha occupato un’ attenzione superiore al passato. Ma con delle sorprese importanti. Le disparità sociali più discusse non sono quelle fra paesi ricchi e paesi poveri, ma all’ interno delle società più sviluppate. Il tema è stato al centro di questa edizione del Forum, non perché l’ Uomo di Davos sia diventato socialista, ma perché la sua stessa sicurezza è minacciata: attorno alle torri d’ avorio dei banchieri, top manager, e altri privilegiati, cresce la tensione nelle società postindustriali che si affollano di nuovi poveri.L’ Uomo di Davos era abituato a essere invidiato, ma essere odiato e additato come nemico pubblico comincia a preoccuparlo. Più in generale il Forum ha indicato la diseguaglianza "domestica" cioè all’ interno di ciascuna nazione come la principale fonte di instabilità, crisi politiche, proteste violente. Invece la povertà delle nazioni non è più quella di una volta. La vera novità di Davos 2011 non stata è tanto l’ invasione dei cinesi e degli indiani, un fenomeno ormai consolidato da diverse edizioni, bensì il successo degli ultimi della classe: Bangladesh, Tanzania, Etiopia, Uganda, Vietnam, Mosambico, Uzbekistan nel 2005 concentravano i due terzi degli abitanti più poveri della terra, oggi hanno tutti dei ritmi di sviluppo eccellenti. Uno studio della Brookings Institution, che è servito da base di partenza per le discussioni di Davos, rivela che nell’ ultimo quinquennio mezzo miliardo di persone sono uscite dalla miseria estrema. Entro il 2015 la quota della popolazione africana sotto la soglia della povertà assoluta si sarà ridotta sotto il 40%, un risultato che la stessa Cina ottenne solo a metà degli anni Novanta. In questo senso l’ attenzione ormai ossessiva del dibattito politico o dei mercati finanziari verso i cosiddetti paesi emergenti o i Brics (Brasile Russia India Cina) sembra già una forma di conformismo. Quella è una storia importante, certo, ma ormai ben consolidata. Quando si parla di povertà delle nazioni, denunciano Laurence Chandy e Geoffrey Gertz che sono gli autori della ricerca per la Brookings Institution, la classe dirigente mondiale continua a usare dei dati vecchi di sei anni. Il dibattito su questi temi è anacronistico, perché la base fattuale utilizzata da tutti è un lavoro della Banca mondiale che risale ormai al 2005. "La comprensione dello stato della povertà globale sostengono Chandy e Gertz è impermeabile alla realtà, finché usiamo statistiche così obsolete". In quello studio della Banca mondiale che è divenuto la "Bibbia" sulla materia, fu calcolata la parte della popolazione mondiale che viveva con meno di 1,25 dollari al giorno, che è stata definita come la soglia della povertà assoluta. «E molti di coloro che discutono questi temi spiegano Chandy e Gertz continuano a dire che oggi un miliardo e 370 milioni di persone nel mondo sono sotto quel livello, inclusi 456 milioni di indiani e 208 milioni di cinesi. Quelli però sono ancora i dati vecchi di sei anni». In questo periodo, come dimostra lo studio della Brookings intitolato "Poverty in Numbers: The Changing State of Global Poverty from 2005 to 2015" i cambiamenti sono stati straordinari. L’ insieme delle economie dei paesi in via di sviluppo sono cresciute del 50%. Nonostante la grande recessione: che in effetti a posteriori si conferma come una recessione essenzialmente occidentale, meno globale di quanto si era creduto. L’ effetto di quella poderosa crescita sulla povertà mondiale è impressionante. Ovviamente siamo ormai abituati ai numeri "strepitosi" di Cina e India, ma dietro di loro ci sono tanti altri protagonisti dell’ "arretramento" della miseria. La Brookings elenca nove paesi che nel 2005 concentravano ben due terzi di tutti i poveri del pianeta: sono appunto Bangladesh, Tanzania, Etiopia, Vietnam, Uganda, Mozambico e Uzbekistan. Ebbene, dal 2005 a oggi tutti senza eccezioni hanno avuto dei tassi di crescita che la ricerca presentata a Davos definisce "fenomenali". In effetti gli esperti della Brookings sono partiti proprio dai dati della Banca mondiale, per compiere su quelli il loro lavoro di aggiornamento. Ecco il risultato: tra il 2005 e il 2010, mezzo miliardo di persone si sono sollevate dalla soglia della povertà assoluta. "Di conseguenza osservano gli autori del rapporto il numero totale dei poveri nel mondo è sceso a 878 milioni di persone". Si tratta ancora di una massa sterminata, beninteso, e il loro dramma resta una vergogna mondiale. Al tempo stesso, bisogna ammettere come fanno gli studiosi della Brookings che "mai prima d’ ora nella storia umana un numero così vasto di persone sono uscite dalla povertà in un arco di tempo così breve". La scoperta è tanto più confortante, perché questo è avvenuto in un periodo di crisi dell’ Occidente, che in altri tempi avrebbe potuto risucchiare all’ ingiù anche l’ emisfero Sud del pianeta. Invece quel che è successo soddisfa perfino gli obiettivi del Millennio fissati dalle Nazioni Unite, e che molti avevano ritenuto irrealistici. Quel programma dell’ Onu si prefiggeva di dimezzare la povertà globale tra il 1990 e il 2015. In effetti quell’ obiettivo è stato probabilmente raggiunto nel 2008 dimostra la ricerca Brookings con sette anni di anticipo sul piano. Questa ricerca dibattuta a Davos si spinge più in là. Facendo previsioni sul tasso di crescita dei consumi, arriva alla conclusione che entro il 2015 i poveri saranno meno di 600 milioni (malgrado l’ aumento della popolazione mondiale). L’ arretramento complessivo dei confini della miseria avviene un po’ dappertutto, in ogni continente, a velocità diverse. Ovvio che le due maggiori storie di successo rimangono Cina e India. "Cindia" da sola pesa per i due terzi della riduzione dei poveri, tra il 2005 e il 2015. Se si aggiungono le altre nazioni asiatiche, questo continente realizza i tre quarti della riduzione della miseria mondiale in quest’ arco di tempo. La quota di poveri che abitano in Asia scenderà così dai due terzi del totale a un terzo. Di conseguenza la quota dei poveri di tutto il mondo che si concentrano in Africa salirà fino a quasi il 60%. E tuttavia questo aumento relativo rischia di mascherare i progressi notevoli in corso anche nel continente nero. Già nel 2008 la percentuale di poveri nella popolazione africana era scesa sotto il 50% per la prima volta nella storia. Entro il 2015 la quota di miseria in Africa sarà sotto il 40% della popolazione. «Una riduzione di tale rapidità osservano gli autori non si è verificata neppure in Cina». La ricerca della Brookings sfata molti miti e gli autori non risparmiano frecciate contro il "pensiero unico progressista" che sembra aver scelto di non vedere ciò che accade di positivo. «Si continua a citare denunciano Chandy e Gertz il dato secondo cui nel biennio della recessione 64 milioni di persone sono state ricacciate nella povertà, e si preferisce ignorare il dato che centinaia di milioni ne sono usciti nel corso degli ultimi sei anni». Quel che è accaduto in diverse nazioni dell’ Africa, come Vietnam, Bangladesh e Uzbekistan, è la normale conseguenza dei tassi di crescita sostenuti che quei paesi sono riusciti a mantenere in questo periodo. Una ragione per cui l’ Occidente continua a non aprire gli occhi di fronte a questa realtà positiva, è che quei paesi stanno meglio perché il loro ciclo economico è più sintonizzato con quello cinese che con quello occidentale.