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 2011  febbraio 01 Martedì calendario

NELL’AGENDA POLITICA È UNA PRIORITÀ

Spira un vento gelido che chiama alla responsabilità. La crescita zero, il confronto con le dinamiche economiche degli altri paesi che sgomenta. Siamo al palo e non ci sono soldi. La pentolaccia del sociale ribolle sinistramente, qualsiasi previsione sul futuro lo dipinge a tinte fosche. I giovani sono schiantati da prospettive inesistenti, i vecchi oppressi dall’idea che con i loro redditi dovranno mantenere un numero sempre crescente di figli e nipoti.
Ci dicevano: «La crisi non esiste» e poi in un soprassalto di coscienza: «La crisi è alle nostre spalle». Non credevo ai miei occhi ieri mattina leggendo sul Corriere della sera la lettera appello del presidente Berlusconi che chiama il leader del Pd Bersani a una «collaborazione» in Parlamento per far ripartire quell’economia nazionale che tanti moniti altissimi ha suggerito al presidente Napolitano. Il Pd ha risposto che il tempo è scaduto, che il premier non è credibile. Sta di fatto che la crescita, per definizione, non può attendere. La politica, da una parte e dall’altra, si dia una mossa, si chiuda in una stanza e ne esca con una soluzione condivisa. Dopo ripetuti assalti televisivi contro le «toghe eversive», con alle spalle la bandiera tricolore, per ricacciare al mittente l’accusa di aver fatto della casa di Arcore un casino o giù di lì, finalmente l’intervista al Foglio di Berlusconi affronta una dimensione ormai inedita, tanto da spingere l’Elefantino a scrivere «… caro presidente siamo felici di aver potuto riparlare di politica con lei…».
Ecco, qui sta la buona notizia. La ripresa di un dibattito senza infingimenti, un autentico sasso nello stagno, la si deve alla proposta di Giuliano Amato, ex leader socialista che ha dato il via alle privatizzazioni in Italia prima e di Pellegrino Capaldo, riservatissimo banchiere cattolico che, non dimentichiamolo, ha avuto un ruolo importante nella privatizzazione del nostro sistema bancario, poi sul rilancio di una tassa patrimoniale da applicare ai “grandi redditi”. Nella versione di Amato si propone un’imposta di 30mila euro per ogni italiano facente parte del 30% più abbiente, in quella di Capaldo una imposta sugli immobili tra il 5 e il 20% del loro valore, una sorta di tassa sulle plusvalenze immobiliari per le case che hanno visto, negli ultimi decenni, crescere enormemente il loro prezzo di mercato. Berlusconi, intendiamoci, sul tema è stato nettissimo: non se ne parla neppure, non serve, produrrebbe danni. Gli fa eco Emma Marcegaglia aggiungendo il no della Confindustria. A sinistra, dove pure la patrimoniale ha rappresentato una grande tentazione (proposta già dal Pci di Berlinguer negli anni 70) si avverte molta timidezza, quasi imbarazzo.
Eppure se allunghiamo lo sguardo oltre l’Oceano scopriamo che (ne rende conto un documentatissimo Special Report sull’ultimo numero dell’Economist) è partita una corsa dei super ricchi a concedersi a laute donazioni allo Stato, quasi una sorta di welfare parallello. Scopo dichiarato: ridurre la forbice tra le élites facoltose e tutti gli altri, un fenomeno che produce, nel suo impatto con la mentalità americana, problemi anche di natura etica. Folgorante l’esempio fornito dal sociologo Domenico De Masi sull’ineguaglianza nel mondo in cui viviamo: «Oggi una mucca da latte in Europa riceve un sussidio di 913 dollari mentre un abitante dell’Africa subsahariana ne riceve solo 8». Un confronto che ci aiuta a capire anche cosa accade nei paesi dell’Africa bagnati dal Mediterraneo. Lì, in Tunisia, in Egitto, in Algeria, fino allo Yemen, la pentola a pressione delle disuguaglianze è esplosa e manda in frantumi regimi trentennali. È successo, come ha osservato Romano Prodi sul Messaggero, che una ristrettissima fascia di popolazione si è arricchita smodatamente, in tutti questi anni, mentre il resto della società ha visto degradare, peggiorare, schiantare il proprio tenore di vita fino a considerarlo non più sopportabile. Ecco allora che l’economia ingoia, dopo averla sbranata, la politica miope e arrogante dei regimi. Non a caso a Davos, dove i vip globali si incontrano a tariffe da capogiro, il tema delle disuguaglianze raccoglie attorno allo stesso tavolo personalità del calibro di Hu Jintao, a capo di una Cina che mentre sforna nuovi ricchi a milioni dimentica nelle campagne i più poveri tra i poveri, David Cameron, che guida un Inghilterra provata dall’impoverimento del ceto medio a seguito della crisi, Dominique Strauss- Kahn, che schiera il suo Fondo monetario alla ricerca di un nuovo equilibrio planetario e soprattutto Warren Buffet (foto) il secondo uomo più ricco d’America che porta avanti in patria una crociata per aumentare la tassa di successione. Come a dire: quando il paese soffre chi ha di più, chi sta meglio è chiamato a fare la sua parte.
Tanti frammenti di un caleidoscopio in movimento: gli scenari cambiano con una velocità mai vista prima e alla quale culture e vizi antichi oppongono strenue resistenze. Per quel che riguarda noi, la classe politica, e dirigente, nel suo insieme, dovrà farsi carico di conservare ciò che c’è di buono (la forza propulsiva della classe media e la sua propensione al risparmio) e attaccare con chirurgica determinazione la palla al piede di un debito pubblico fuori misura (118% tendente al 120 sul Pil con 80 miliardi di interessi da pagare quest’anno) che pesa come un macigno su qualunque ambizione futura del nostro paese. Quella che abbiamo davanti, come esigenza primaria, è la necessità di un nuovo blocco di regole inattaccabili, dalla riforma del fisco a quella della spesa pubblica, senza le quali qualsiasi richiesta suonerà come l’ennesima beffa ai contribuenti già presi al guinzaglio dalla Agenzia delle entrate. Il paradosso dell’asino di Buridano dovrebbe aprire, di questi tempi, ogni telegiornale.