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 2011  gennaio 31 Lunedì calendario

Dal nostro inviato Frank Norris «Ho visto la guerra ed è bellissima» - Il generale aveva rovinato i suoi occhiali, e così passò il dispaccio a uno dei suoi aiutanti dicendo: «Leggi­mi questo, Nolan»

Dal nostro inviato Frank Norris «Ho visto la guerra ed è bellissima» - Il generale aveva rovinato i suoi occhiali, e così passò il dispaccio a uno dei suoi aiutanti dicendo: «Leggi­mi questo, Nolan». In gi­nocchio e tenendo il di­spaccio alla luce della candela, Nolan lo lesse a voce alta. Comin­ci­ava in modo abbastanza rassicu­rante con le solite formule milita­ri, e le prime trenta parole poteva­no far parte di uno qualsiasi dei tanti dispacci che il generale ave­va ricevuto negli ultimi tre giorni. E poi «accompagnare il coman­dante generale in un punto a mez­za strada tra le linee spagnole e quelle americane, e là ricevere la resa del generale Toral. A mezzo­g­iorno in punto la bandiera ameri­cana verrà innalzata sul Palazzo del Governatore nella città di San­tiago. Una salva di ventun canno­ni verrà esplosa dalla batteria del capitano Capron. La banda milita­re intonerà La Bandiera a Stelle e Strisce e le truppe esulteranno. Shafter ». Si fece silenzio. L’aiutante resti­tuì il foglio al generale e si alzò in piedi, togliendosi la polvere dal gi­nocchio. Il generale spostò la pipa all’altro angolo della bocca. [...] «Mmh», borbottò il generale pen­soso tra i denti, «mmh, si sono rin­tanati, bene, non dovrete più fare quella certa ricognizione dei vo­stri lungo il fiume, Mr.Nolan».E fu così che sapemmo della resa di Santiago di Cuba. Ci alzammo presto il mattino dopo, alle sei il generale ci aveva svegliati tutti e ci aveva ordinato di frugare e cercare nelle nostre co­perte e nei nostri zaini «qualsiasi cosa che assomigli a una cravatta nera». Era un articolo che nessu­no di noi possedeva, e il generale era più impensierito da questa perdita della cravatta nera che dal fatto di non aver né abito né giac­ca per rendere onore alla capitola­zione della città. Ma noi avevamo i nostri, di pro­blemi. La bandiera doveva essere innalzata sulla città a mezzogior­no. A un certo punto nella mattina­ta, il generale spagnolo si sarebbe arreso all’americano.Il generale – il nostro generale –e i suoi aiutan­ti, così come tutti i comandanti di divisione e di brigata, sarebbero usciti a cavallo per essere presenti alla cerimonia – ma i corrispon­denti? Quasi di certo, non sarebbero stati ammessi. I permessi accorda­t­i ai giornalisti e agli scrittori di rivi­ste erano pochi, e molto radi du­rante la campagna. Avremmo os­servato la faccenda col binocolo, in cima a qualche collina, a due miglia o tre, forse, di distanza. Ma con tutto questo, sellammo i no­stri cavalli e quando il generale e il suo staff cominciarono a cavalca­re verso i quartier generali dei vari corpi d’armata, ci mescolammo agli aiutanti, e decidemmo di sta­re nel gruppo, per tutto il tempo che la nostra determinazione e perseveranza lo avrebbe reso pos­sibile. Era presto quando partimmo e il caldo non era ancora opprimen­te. Lungo e attraverso tutte le linee c’erano segni della più fervida atti­vità. Nella notte gli uomini erano stati ritirati dalle trincee e stavano piantando le loro tende da campo in luoghi più alti e asciutti, e dove il nostro cammino incrociava la strada da Caney a Santiago, ci im­battemmo in centinaia di profu­ghi che ritornavano alla città da cui erano stati scacciati pochi gior­ni prima. I quartier generali erano stati spostati un miglio o due du­rante lo scontro, e lo scoprimmo occupando il sito della tenda del generale Wheeler, sul campo di battaglia di San Juan. La zona è so­praelevata e aperta, e non appena arrivammo potemmo vedere gli ufficiali – ciascuno accompagna­to dal suo staff – che si concentra­vano da ogni parte in uno stesso punto. [...] D’un tratto il luogo era pieno di soldati spagnoli. Ci vennero in­contro fieri e baldanzosi. Innanzi­tutto un corpo di trombettieri ini­ziò una bella marcia militare. Sof­fiavano in aria di sfida, quei trom­bettieri spagnoli, e più forte che potevano, in modo da farci capire che non avevano paura –non glie­ne importava, non a loro, puh! Do­po di loro venne un piccolo distac­camento della Guardia, in armi, che guardò i soldati yankee con fis­sità bovina; poi si fermarono e fe­cero il presentat’arm verso di noi. Toral, il generale sconfitto, si av­vicinò. Improvvisamente si era fat­to silenzio. I trombettieri avevano cessato di suonare, e lo sferraglia­re delle truppe in movimento si era taciuto all’alt.Il generale battu­to uscì nello spazio aperto davanti al suo staff, e il generale Shafter si mosse per incontrarlo, ed entram­bi si tolsero il cappello. Gettai un rapido sguardo attor­no, agli spagnoli nelle loro unifor­mi blu, il rosso e la lacca della Guardia civil, i Mauser in ordine, i trombettieri che appoggiavano le trombe sui fianchi, e la nostra stes­sa fila, McKibben con la sua cami­cia nera, Ludlow con i suoi calzoni bianchi, e i ranghi e le file della scorta, i cavalieri abbronzati, in pantaloni blu, eretti e immoti sul­le loro cavalcature. Era la guerra, ed era magnifica, vista qui sotto la vampa del sole dei tropici, con tut­ta quella massa di verde come fon­dale, e c’era una grandezza intut­to questo, essere lì e vedere tutto, in un certo modo esserne parte, ti faceva sentire che in quel momen­to stavi vivendo più e con più forza che mai prima d’allora.Era di nuo­vo Appomattox, e Mexico, e York­town. L’indomani,circa un centi­naio di milioni di persone in tutto il mondo avreb­bero letto di questa scena, e molti di più, non ancora na­ti, l’avrebbero let­ta; ma oggi tu pote­vi sedere sulla tua sella, sul dorso del tuo piccolo pony bianco, e vederlo como­damente come uno spetta­colo. Toral spinse il cavallo verso Shafter,e,come ho detto,entram­bi a capo scoperto. Toral era in for­ma; la sua faccia, alquanto arrossa­ta dal sole e seminascosta da bei mustacchi grigi. Era un pochino calvo, la fronte alta e bombata. Quando i generali si strinsero la mano, c’era così tanto silenzio che il rumore di un uomo che ta­gliava legna nelle nostre linee, cir­ca a mezzo miglio, era chiaramen­te udibile. Subito dietro di loro, gli staff di entrambi osservavano. La scorta osservava. Dietro, lungo le tende spagnole e americane, mi­gliaia di uomini stavano in riga e osservavano; Santiago osservava, e Washington; la Spagna e gli Stati Uniti, i due emisferi, il Vecchio mondo e il Nuovo, si fermarono in quel momento, osservando. Una frase o due fu detta a bassa voce, e i generali si rimisero i cappelli e si strinsero le mani, sorridendo. [...] Santiago, Santiago finalmente, dopo tanti giorni di navigazione, di marcia e contromarcia, di batta­glie. Eravamo in città finalmente, en­trando a cavallo con rumore di zoccoli, tintinnìo di sciabole, scric­chiolìo di selle, e di colpo una gran­de onda d’esultanza ci investì tut­ti. So che il generale la sentiva. So che l’ultima recluta della scorta la sentiva.Non c’era spazio per pen­sieri umanitari. La guerra non era una «crociata», non combatteva­mo per i cubani, no. Non era per motivi disinteressati che eravamo là, con le sciabole e i revolver e la carabine. Santiago era nostra – era nostra,nostra,l’avevamo con­quistata con la spada noi, gli Ame­ricani, senza l’aiuto di nessuno, e il nostro sangue anglosassone, il sangue della razza che si era fatta largo da una fredda brughiera in Friesland, conquistando e conqui­stando e conquistando ancora, verso Occidente: il sangue della nostra razza, il cui istinto è la con­quista della terra, galoppò nelle nostre vene al ritmo degli zoccoli dei cavalli.