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 2011  febbraio 01 Martedì calendario

PETROLIO E MISERIA, LA BOMBA DI SUEZ — A

Suez respiri i soldi nell’aria. L’odore di petrolio e le esalazioni delle fabbriche che fruttano al regime miliardi di dollari l’anno. I cubi colorati dei palazzoni sono sparpagliati come un lancio di dadi sulla sabbia del deserto, affollati degli operai trapiantati qui dalla miseria dei villaggi.
Le macerie dei bunker e l’eroismo esaltato dai mosaici patriottici ricordano che la città si è opposta all’offensiva israeliana nella guerra del 1973. Le trincee adesso scendono lungo il viale 23 luglio, che celebra il golpe rivoluzionario di Gamal Abdel Nasser e piange i morti di questi giorni. Qui i dimostranti hanno affrontato i poliziotti negli scontri più sanguinosi della rivolta egiziana. Le camionette restano in coda carbonizzate, la caserma dei pompieri è incenerita dalle fiamme che avrebbe dovuto combattere, al primo piano del commissariato lo striscione avverte: «La proprietà è sotto il controllo dell’esercito, nessuno può entrare. La calma deve essere ristabilita» .
Al Cairo, i manifestanti hanno assaltato i simboli del potere. A Suez, la rabbia ha aggredito i palazzi del denaro. La sede della Bank of Alexandria sembra un fortino espugnato e l’ingresso è protetto (troppo tardi) dai sacchi di sabbia mimetici. I carriarmati dell’esercito sono posizionati vicino agli sportelli del bancomat o agli uffici delle compagnie petrolifere. «Questa città è piena di soldi, ma non per noi» , commenta Ahmed, che lavora in una raffineria e è sceso in strada con la tuta blu per partecipare alla protesta che non si ferma. «Guadagno 400 lire egiziane al mese (poco meno di 50 euro, ndr). Ne pago 300 per l’affitto, 20 per l’elettricità, 15 per l’acqua, 5 per il gas — si lamenta un meccanico con il giornalista della Reuters —. Quanto mi resta per dar da mangiare alla famiglia?» . «E’ la provincia più ricca del Paese, dove finiscono i guadagni del Canale?» , ripete Ahmed.
Quest’acqua ferma muove verso le casse del governo 4 miliardi di dollari l’anno, i proventi del transito di 10 mila mercantili e di 3.500 petroliere che trasportano un milione di barili al giorno. Da qui passa verso il Mediterraneo l’ 1 per cento della richiesta mondiale di greggio (e ne scorre altrettanto attraverso gli oleodotti egiziani). I disordini e la crisi hanno alimentato i timori di una chiusura della scorciatoia artificiale aperta nel 1869 e il prezzo del petrolio ha superato i 100 dollari al barile.
I cumuli d’immondizia si depositano all’ingresso dei caseggiati come risacca della miseria. Attorno, le cancellate lucenti di un centinaio di fabbriche. L’acciaieria di Ahmed Ezz ha chiuso e riaperto, i profitti per il magnate sono cresciuti, le sue quotazioni politiche sono crollate dopo le proteste: tra i confidenti di Hosni Mubarak e uno dei leader nell’Ndp, avrebbe lasciato tre giorni fa l’incarico nel partito Nazionale Democratico. Gli oppositori lo accusano di aver imprigionato l’economia nazionale con le sue spinte monopolistiche.
Le torri delle raffinerie bruciano verso il giallo delle montagne, la produzione continua, eppure i distributori sono rimasti senza benzina. La gente teme che la penuria rientri nella strategia d’assedio del regime: il coprifuoco dalle 15 alle 8 colpisce anche Suez, i rifornimenti sarebbero stati bloccati.
Le donne si mettono in fila per il pane, tendono le mani attraverso il buco che fa da vetrina a uno dei pochi negozi rimasti aperti. Con tre lire egiziane (quasi 40 centesimi) possono avere la tessera statale che permette di comprare dieci pagnotte razionate. Devono durare per tutto il mese. Accusano il governo di non aver realizzato le riforme sociali, proclamate da Gamal Mubarak, il secondogenito del presidente, ancora pochi mesi fa («saranno ambiziose, molti obiettivi sono stati raggiunti, andremo oltre per aiutare il popolo» ). L’economia egiziana è stata rallentata dalla crisi finanziaria globale, ma continua a crescere attorno al 6 per cento. Quasi la metà degli 80 milioni di abitanti annaspa attorno alla soglia di povertà, 2 dollari al giorno. La disoccupazione è al 9,4 per cento, il 90 per cento dei senza lavoro sono giovani.
Le strade dal Canale verso il Cairo sono chiuse dai tank dell’esercito. Suez, Port Said, Ismailia restano tagliate, i camion ingombrano il passaggio davanti allo stadio Mubarak, costruito nel 2009 per ospitare gli incontri dei Mondiali di calcio under-20.
Per raggiungere la capitale, esistono due alternative. Una passa attraverso le rocce e gli assalti (minacciati da un ufficiale dell’esercito) dei beduini, l’altra costa troppo quasi per tutti. Cinque lire di pedaggio funzionano meglio di un posto di blocco militare, l’autostrada corre vuota verso la periferia e il Nuovo Cairo, l’ultimo casello è colorato dai ritratti pacchiani di divi del cinema, fasulli come la promessa di ricchezza cementificata in questi sobborghi.
Davide Frattini