Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  febbraio 01 Martedì calendario

Quando le rivoluzioni ci colgono di sorpresa - La rivoluzione del 25 gennaio impone agli analisti internazionali interrogativi sul futuro egiziano ma anche sul passato

Quando le rivoluzioni ci colgono di sorpresa - La rivoluzione del 25 gennaio impone agli analisti internazionali interrogativi sul futuro egiziano ma anche sul passato. Era possibile prevedere il crollo di Mubarak? Questione più che rilevante se aver sottostimato la fuga del presidente Ben Ali è costato il posto all’ambasciatore di Francia a Tunisi Pierre Menat, richiamato a Parigi da un indignato Sarkozy. La sorpresa dei politologi per quanto sta accadendo al Cairo assomiglia molto a quella degli economisti di fronte alla crisi finanziaria del 2008. Sull’esempio dei colleghi esperti di Wall Street, alcuni di loro hanno iniziato a ragionare sulla débâcle interpretativa per capire come leggere i processi in divenire anziché sgranare gli occhi di fronte al precipitare degli eventi. Imparare dalla storia «Gli ingredienti erano tutti lì, la disoccupazione, l’ineguaglianza, la repressione: tra colleghi non facciamo che chiederci perché non abbiamo previsto l’Egitto» ammette Tim Stevens, esperto dell’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence del King’s College di Londra. Il nodo, sostiene, è la variabile imprevedibile della Storia: «Ancora discutiamo di quando non capimmo la fine del comunismo: non si può prevedere il futuro». Se fosse possibile, osserva il politologo della Carnegie Moises Naim, qualcuno sarebbe miliardario: «Pensate all’interesse delle intelligence, c’è un’industria che lavora a capire come andrà il mondo, un vero business. Ma come nei pronostici finanziari, quando c’è un sentore non c’è comunque tempistica certa: posso dire che nel 2011 ci sarà un disastro naturale da migliaia di morti, non quando. E poi c’è la Tunisia, un Paese con una crescita del 3,5% da 15 anni, estraneo all’estremismo islamista, moderno. Chi avrebbe scommesso sul crollo?». Le rivoluzioni sparigliano perché spezzano i trend, insiste l’analista del German Marshall Fund Ian Lesser: «E’ vero che non impariamo mai, ma la velocità impressa alla Storia dai nuovi media rende tutto più difficile. Un’idea potrebbe essere sbirciare più spesso i blog e Facebook». I nuovi media Internet, certo. Secondo il direttore del Moshe Dayan Center dell’Università di Tel Aviv Rabi Uzi è la benzina della rivolta che sta contagiando la regione: «Il Medio Oriente ha avuto uno sviluppo incredibile in questi dieci anni, e siamo solo all’inizio. In Egitto c’è una cyberivoluzione in corso che vent’anni fa sarebbe stata impensabile. Oggi invece la gente va in piazza, filma e in tempo reale mostra al mondo cosa sta accadendo». I politologi insomma devono aggiornarsi, concorda Tim Stevens: «Non sarebbe successo nulla senza i media: una piccola protesta subito repressa, come al solito. Ma ora tutto accade rapidamente: la Tunisia ha acceso i riflettori e gli altri popoli della regione hanno compreso che era arrivato il loro momento battendo sul filo di lana politologi e politici». E adesso? Ian Lesser accetta la provocazione: «Direi che la prossima settimana Mubarak non sarà più al potere...». Concentrarsi sulle persone Vedo, prevedo, stravedo: il futuro è davvero roba da chiromanti? Rabi Uzi suggerisce di ripartire dal basso: «Se basi le analisi geopolitiche sulla tecnologia bellica ignorando la cultura e i cambiamenti sociali, perdi il treno. I governanti arabi sono fermi al XX secolo, quando a preoccupare erano solo il potere militare e, dal 1979 in poi, quello religioso. Non consideravano il popolo, e invece eccolo qua». La chiave della geopolitica moderna sono le persone fisiche, concorda Keith Nevens, mediorientalista di Chatham House: «Nella regione ci sono cornici simili ma quadri diversi: bisogna puntare l’attenzione sul vissuto della gente». C’è una lezione che Moises Naim consiglia d’appuntarsi: «Non siamo più nell’età in cui ciò che desiderano gli Stati Uniti accade. L’Egitto di queste ore ha poco a che fare con l’America o con l’interferenza straniera e molto con quanto si muove a livello del popolo». L’analisi prima della politica Tutti concordano che lo studio della situazione dovrebbe precedere l’interpretazione politica e non viceversa. Anche quando non conviene. Parola di Rabi Uzi. «Quanto sta accadendo in Egitto cambierà il Medioriente e, al momento, non sembra a vantaggio d’Israele. Non sono sicuro che la transizione porterà necessariamente la democrazia, ci sarà incertezza e fra tante opposizioni prevarrà quella più organizzata che al momento sembra i Fratelli Musulmani». I poteri paranormali non servono, chiosa il presidente dell’Istituto Affari Internazionali Stefano Silvestri. La testa sì: «Nel caso di regimi fragili come l’Egitto ci si attende la crisi ma nessuno è indovino. Il punto non è il prima ma il dopo, la gestione della transizione». Un processo comunque, per leggere il prossimo evento.