Ubaldo Casotto, Il Riformista 30/1/2011, 30 gennaio 2011
UNA SPERANZA DI NOME WA’IL FAROUQ
Non si può affidare la propria speranza a un cambiamento di potere. Non si può farlo in Italia. Non si può farlo nemmeno per l’Egitto, dove l’uso della parola “regime” è sicuramente più appropriato. Nemmeno per i paesi del totalitarismo comunista, pur essendo stato moralmente doveroso fare di tutto perché crollassero, così come è giusto oggi sostenere l’avvento di una democrazia reale al Cairo.
La speranza è cosa troppo seria per affidarla a un “change”. La speranza è della pace, cioè di una convivenza fra uomini che sia condizione di una vita costruttiva, dello sviluppo, del progresso, del benessere. Cacciato Mubarak, su quali basi i laici, i musulmani e i copti d’Egitto si riuniranno? E quale aiuto, oltre quello economico, diplomatico e immediato dovuto a ogni democrazia nascente, può dare il nostro continente?
Il contributo più efficace è quello che incide a livello culturale, diventando così fattore di storia.
Vive e insegna al Cairo un professore, sconosciuto ai più, che può essere preso a simbolo del rapporto fra le due sponde del Mediterraneo; si chiama Wa’il Farouq, è musulmano e docente all’American University, dove insegna lingua araba e cultura islamica a stranieri che in gran parte provengono da paesi europei.
Farouq ha così descritto la sua esperienza: «Ero un ricercatore abituato a vedere gli altri e il mondo a partire da certezze chiuse su se stesse. E queste certezze hanno cominciato a vacillare dentro di me, quando ho dovuto affrontare la domanda: come potrei essere capito da questi studenti? Quale lingua comune potrei utilizzare? Come avremmo potuto interagire e comunicare tra di noi, nonostante le nostre differenze? L’altro, l’europeo, era sempre presente nella mia immaginazione e pensavo di conoscerlo abbastanza bene e avevo anche formulato delle opinioni a proposito di lui, a proposito della sua cultura. Ma mi sono confuso parecchio una volta che questo altro è diventato parte della mia vita quotidiana, che sedeva davanti a me con gli occhi spalancati e le orecchie aperte. Non mi sono confuso perché in quel momento ho scoperto di non conoscere quest’altro, ma mi sono confuso perché ho scoperto che io non possedevo una certezza a proposito di me stesso».
La risposta pavloviana che noi diamo a questo problema è il “dialogo”. Ma Farouq ci sorprende. «Personalmente non mi piace molto la parola dialogo. Preferisco parlare di incontro, perché il dialogo rischia di essere sempre uno strumento per dividere le persone, un processo in cui si formano due parti e poi si cerca artificialmente di stabilire un contatto tra loro». Farouq asserisce di aver abbandonato i suoi pregiudizi sul Vecchio Continente e di aver colto lo spirito europeo grazie all’incontro con un suo studente, «ho visto che lui viveva questa cultura e che la praticava nella sua vita quotidiana, nel suo cibo, nel suo lavoro, nella sua casa, attraverso le sue barzellette, nel suo stupore, nelle sue domande. Questa esperienza mi ha fatto capire che la conoscenza della realtà e dell’altro non è possibile se quest’altro non è fatto di carne e ossa, se non è vivo, se non è uomo e amico».
Il professor Farouq è stato l’animatore e l’organizzatore, nell’ottobre scorso, del Meeting del Cairo, due giorni di incontri con filosofi, scienziati, teologi, giuristi, musicisti e artisti musulmani e cristiani, cui hanno partecipato tra gli altri Hosam Kamil, rettore dell’Università del Cairo, e Tahani al-Jibaly, vicepresidente della Suprema Corte Costituzionale. Farouq ha voluto fortemente questo incontro per testimoniare che è possibile oggi e nel futuro quello che è stato nella tradizione del suo paese: «In Egitto non esistono due parti separate, viviamo tutti la stessa realtà e ci incontriamo a tutti i livelli della vita di ogni giorno. Ciò che da venti secoli in Egitto consente a musulmani e cristiani di vivere insieme non è un dialogo inteso astrattamente, ma l’esperienza elementare nell’accezione utilizzata da don Giussani».
Che cosa c’entri don Giussani è presto detto. Farouq è tra i fautori della traduzione in arabo de “Il senso religioso”, il libro più noto e diffuso nel mondo del sacerdote lombardo. Leggendolo Farouq vi ha trovato la chiave di volta che può permettere un vero incontro tra la cultura occidentale e quella araba. Ragione e realismo - dice Farouq - sono due concetti in qualche modo nuovi per la cultura araba, ma che possiamo assorbire; «nella profonda struttura della coscienza araba il concetto di realismo era sempre monco, gli mancava la libertà umana»; e ancora: «la ragione, in lingua araba, non è da confrontare con la parola inglese “reason”, in arabo significa comprensione, ha molti significati , ma quello centrale è sempre legare, incarcerare, chiudere dentro».
Un concetto di ragione come apertura infinita sul reale, e una “realistica” concezione dell’uomo a partire non da un precetto religioso («Questo mi ha sorpreso di don Giussani - ha detto un altro intellettuale egiziano, Said Shoaib -, non è soltanto uomo di religione, è un uomo di vita. Non ha cercato la religione nei testi sacri, come fanno i religiosi ovunque, trasformando quindi la religione in un’insieme di comandamenti e di divieti. Ha cercato la fede nella vita, nella letteratura, nella poesia, nell’arte, nella gente, e così facendo ha protetto la religiosità dalla chiusura, la chiusura che trasforma la religione in uno strumento di oppressione invece che di libertà»), ma dall’esperienza, da quell’«esperienza elementare» che è la struttura originale con cui ogni uomo nasce e in virtù della quale dice “io”, indicando con questa parola un volto interiore uguale in ciascuno anche se tradotto nei modi più diversi.
L’intuizione di Farouq - e se potrà fattivamente dar seguito a incontri e scambi come il Meeting del Cairo è un’intuizione foriera di speranza - è che l’antidoto al radicalismo fondamentalista non può essere il laicismo occidentale. Il sogno di molti nel mondo arabo è il modello francese di netta separazione tra religione e vita, ma per Farouq chi pensa così è «un emigrante nello spazio, vive con il corpo qui, nei paesi arabi, ma con la mente in Europa». Emigrante nel tempo è invece il fondamentalista, che presenta integralisticamente la religione come alternativa alla vita ragionevole e sogna un impossibile ritorno all’epoca del Profeta. La conclusione di Farouq è che «il pensiero arabo moderno è in crisi perché non esiste un’unità tra l’ora e il qui. I concetti di ragionevolezza e realismo proposti da Giussani sono un’occasione per ripristinare questa unità tra il qui e l’ora».
Con queste premesse si potranno rileggere - anche, ma non solo, nel mondo arabo - con più serenità e più senso del compito storico le parole di Joseph Ratzinger e Ratisbona sull’alternativa tra allargamento della ragione e violenza.