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 2011  gennaio 30 Domenica calendario

ECCO COME L’EURO PUÒ ANCORA SALVARSI


Una delle domande più insistenti nei dibattiti sull’economia, pubblici o riservati, è se l’euro si salverà. La risposta è: sì, se gli europei lo vogliono. Salvare l’euro significa fare uscire dalla crisi i paesi «periferici», Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ma anche rafforzare la sostenibilità di paesi a alto debito come Belgio e Italia, e irrobustire la capacita di crescita di tutta l’Unione monetaria. Questi obiettivi sono realizzabili. Richiedono uno sforzo molto significativo nelle politiche economiche dei paesi ma anche un deciso rafforzamento delle istituzioni europee. In tutti i paesi periferici, sotto la spinta della crisi, sono state varate misure severe di consolidamento fiscale, per mettere le finanze pubbliche sotto controllo, e misure di riforma strutturale, per riequilibrare e irrobustire la crescita. Misure che si rafforzano a vicenda.
La stabilizzazione della finanza pubblica migliora la fiducia dei mercati, abbassa il costo del debito e sostiene la crescita. Una crescita più alta aumenta le entrate e migliora la dinamica del debito. Si tratta di misure non certo indolori in termini di reddito e di occupazione e costose in termini di consenso politico. Ma indispensabili se si vuole evitare soluzioni ancora più dolorose, come la ristrutturazione del debito, o peggio ancora, una disastrosa uscita dall’Unione monetaria.
Le risposte nazionali sono necessarie ma non sufficienti. La crisi dell’euro è una crisi di sistema e richiede risposte che rafforzino il sistema. Passi avanti sono stati fatti. È in corso una profonda riforma della vigilanza delle politiche economiche nazionali. Il Patto di Stabilità non può limitarsi al monitoraggio delle politiche fiscali ma deve tenere conto degli squilibri nel settore privato (che nei casi di Irlanda e Spagna si sono rivelati fattori decisivi nel portare alla crisi). La crescita dell’economia europea deve invertire la tendenza al ribasso che prosegue da oltre un decennio, puntare sull’innovazione, il capitale umano e le grandi infrastrutture (eventualmente finanziate da eurobonds).
Sono gli obiettivi di Europa 2020, che devono però essere alimentati da azioni concrete, comprese misure di liberalizzazione in molti paesi dell Unione di settori ancora non integrati nel mercato unico. Tipico è il caso dei servizi, che fornirebbe un potenziale di crescita assai significativo. Ultima componente, ma non certo per importanza, della riforma delle istituzioni dell’ Unione Monetaria è quella che riguarda la stabilità finanziaria. Passi importanti sono stati fatti con la creazione dell’European Systemic Risk Board con compito di sorveglianza sui rischi sistemici e con la creazione del European Financial Stability Facility (Efsf), con il compito di fornire assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà.
In piena crisi finanziaria il ruolo dell’Efsf si è dimostrato cruciale. Il grado di nervosismo dei mercati si è dimostrato molto sensibile alle prospettive di rafforzamento di questo strumento, sia in termini di risorse, sia in termini di durata. Il segnale è chiaro. I mercati sono disposti a concedere fiducia ai paesi che si devono indebitare alla doppia condizione che i governi mettano in atto riforme incisive e credibili e che i governi di tutti i paesi europei siano disposti a fornire sostegno finanziario in misura sufficiente, e per il tempo necessario a superare la crisi. La formula giusta per salvare l’euro è stata trovata allora? Non ancora.
Ciò che sembra opporsi è un irrigidimento dei paesi forti, in primo luogo della Germania, all’aumento delle risorse per l’Efsf e alla sua stabilizzazione definitiva. Le ragioni si collocano nella politica interna. La cancelliera Merkel non può spiegare al suo elettorato che deve mobilitare risorse tedesche per salvare il debito pubblico di paesi come Grecia e Portogallo, che non godono, e non sono i soli, di una robusta reputazione presso l’opinione pubblica tedesca. Ma le alternative non sono tanto appetibili. Un default del debito sovrano dei paesi della periferia avrebbe conseguenze negative sui bilanci delle banche di gran parte degli altri paesi europei, ma sopratutto di Francia e Germania, che ne detengono in grande quantità. Ancora più grave sarebbe l’eventualità di una uscita di questi paesi dall euro se, malgrado gli sforzi di aggiustamento si giungesse alla conclusione che una (significativa) svalutazione fosse l’unica possibilità per Grecia, Irlanda o Portogallo di rilanciare la crescita.
La Germania pone altre condizioni per accettare di continuare a sostenere l’Efsf pur volendone limitare mandato e risorse. Che i paesi accettino di rafforzare le regole che vincolano la finanza pubblica (magari iscrivendo tali impegni nella Costituzione). Che siano previste procedure per una ristrutturazione del debito tale per cui i creditori privati accettino una «tosatura» che in qualche misura li punisca per avere concesso risorse a debitori inaffidabili. La prima condizione riflette una scelta che i tedeschi hanno già compiuto, ma rimane da valutarne l’efficacia in altri paesi. La forza di una regola dipende sempre dalla sua applicazione. La seconda introduce un elemento di chiarezza sul fatto che la ristrutturazione del debito non è di per sé desiderabile, ma se diventa inevitabile va gestita in modo da minimizzarne i costi. Il problema è che una sua introduzione potrebbe essere interpretata dai mercati come l’ammissione che uno o più paesi indebitati debbano inevitabilmente dichiarare bancarotta, innescando così un circolo vizioso di aspettative.
Il prossimo Consiglio europeo dovrà dare risposte chiare su questi e altri aspetti della riforma della governance economica europea. La situazione di crisi continua. Le azioni intraprese fino ad oggi hanno permesso di guadagnare del tempo, ma è ancora troppo presto per dichiarare la fine dell’instabilità. E il tempo guadagnato va usato per scongiurare definitivamente qualunque rischio di crisi dell’euro.