Federico Fornaro, Il Riformista 30/1/2011, 30 gennaio 2011
LA VERSIONE DI BRUNO PER UNA FIOM RIFORMISTA
Correva l’anno 1909 quando, alle prese con una gravissima crisi politica e organizzativa, la guida della Fiom venne affidata a un sindacalista riformista destinato a lasciare il segno nella storia del sindacato italiano: il suo nome era Bruno Buozzi, di cui ricorre domani il 130° anniversario della nascita. Nato a Pontelagoscuro in provincia di Ferrara, emigrato a Milano, ove si forma come operaio meccanico e organizzatore sindacale, Buozzi condusse la Fiom, che aveva spostato la sua sede a Torino, in anni difficili, in cui alle dinamiche economiche derivanti dalla repentina industrializzazione e alle conseguenze disastrose della prima Guerra mondiale, si sommarono straordinarie tensioni politiche e ideologiche. Un impegno profuso senza mai venir meno a una visione riformista e pragmatica sia nell’attività sindacale quotidiana sia nel dibattito tra le diverse tendenze del Partito socialista.
Nel periodo che precedette la prima guerra mondiale, la Federazione metallurgica doveva difendersi dalle accuse di “collaborazionismo” e tradimento che provenivano dalle fila dei sindacalisti rivoluzionari; quest’ultimi non perdevano, infatti, occasione per infiammare le assemblee operaie e lanciare accuse contro l’azione sindacale della dirigenza riformista della Fiom che indicava nella contrattazione collettiva lo strumento privilegiato per tutelare la condizione operaia e il ruolo dei lavoratori nel processo produttivo. Valga per tutti lo sciopero di 65 giorni consecutivi che si svolse a Torino nel 1912, nonostante l’opinione contraria di Buozzi e della Fiom, e si concluse con una sconfitta operaia su tutta la linea.
Saranno, invece, i sindacalisti riformisti a guidare una straordinaria mobilitazione di lotta l’anno successivo, nella primavera del 1913, sempre nel capoluogo piemontese, caratterizzata da ben 93 giorni di sciopero, che ebbe però ben altra conclusione: riduzione dell’orario di lavoro con introduzione del sabato “all’inglese” e tolleranza all’entrata, obiettivi raggiunti senza perdita di salario, oltre al riconoscimento della Fiom, della rappresentanza operaia in fabbrica e al contratto collettivo: uno di quegli accordi destinati a diventare un punto di riferimento stabile nelle relazioni sindacali, ma soprattutto portatori di un concreto miglioramento della condizione di vita dei lavoratori.
Un importante risultato ottenuto dalla Fiom riformista anche perché l’organizzazione «è dotata di quadri, a partire dal giovane e valoroso segretario generale Bruno Buozzi, che hanno una notevole competenza tecnica, un forte prestigio personale, una esperienza di direzione che li rende, in una certa misura, insostituibili nella situazione del momento». A scrivere un giudizio così lusinghiero è uno storico al di sopra di ogni sospetto di simpatie riformiste, il comunista Paolo Spriano, che riesce efficacemente a rendere la forza di una leadership sindacale che verrà messa prepotentemente in discussione da Gramsci e dal gruppo di “Ordine Nuovo” all’indomani dell’occupazione delle fabbriche nell’autunno del 1920.
Infatti, l’autorevolezza e l’ascendente sui lavoratori di Buozzi e dei riformisti rappresentavano un ostacolo ingombrante sulla strada della rivoluzione indicata dalla nascente frazione comunista e così ben presto fu proprio sulla Fiom e sul suo segretario generale che iniziarono a indirizzarsi gli strali polemici di Gramsci e compagni. Contro i riformisti italiani si scomodò persino l’Internazionale Comunista che, al termine del suo II congresso, nel 1920 inviò un messaggio alla classe operaia italiana in cui essi erano definiti «agenti della controrivoluzione e nemici della classe operaia» perché «ogni discorso parlamentare, ogni articolo, ogni opuscolo riformista è per sua essenza un’arma intellettuale per la borghesia contro il proletariato».
Nonostante l’impegno diretto di Buozzi e della Fiom nell’organizzazione della lotta e della vita nelle fabbriche durante la ricordata occupazione del settembre 1920, i comunisti non esitarono, quindi, a far ricadere sui sindacalisti riformisti e sulla direzione del Psi la responsabilità storica della mancata rivoluzione italiana. Per decenni nella propaganda spicciola dei comizi di piazza e anche in parte della storiografia militante, fu sostenuta proprio questa tesi, peraltro assolutamente priva di fondamenta, che è stata all’origine di quel pregiudizio antiriformista che ha attraversato come un fiume carsico tutta la storia del Novecento ed è ancora largamente presente nella sinistra italiana e nello stesso sindacato.
Per parte sua Buozzi, eletto in Parlamento nelle file socialiste (1919 e 1921) e, dopo la scissione-espulsione dei riformisti dell’ottobre 1922, in quelle del Partito Socialista Unitario di Matteotti, Turati e Treves (1924), sarà tra quei dirigenti della Cgl (di cui sarà eletto segretario generale nel dicembre 1925) che cercarono in ogni modo di frenare la deriva «collaborazionista» del sindacato riformista di fronte all’onda montante del fascismo. Costretto all’esilio nel 1926 dopo l’approvazione delle leggi eccezionali, da Parigi, Buozzi si impegnò nella difficile opera di riorganizzazione della Cgl, entrando in contrasto con quella clandestina rifondata su iniziativa del Pci.
Arrestato per mano della Gestapo nel 1941 e inviato al confino di Montefalco, in Umbria, dopo la caduta del fascismo, nell’agosto 1943, a dimostrazione del suo grande prestigio, Buozzi fu chiamato dal Governo Badoglio, a svolgere il delicato ruolo di commissario straordinario della Confederazione sindacale dei lavoratori dell’Industria, uno strumento pensato per superare il sindacato corporativo fascista, ottenendo la ricostituzione delle commissioni interne soppresse dal regime fascista nel 1925. Dopo l’8 settembre 1943, nella clandestinità, insieme al cattolico Achille Grandi e ai comunisti Giovanni Roveda e Giuseppe Di Vittorio, gettò le basi della futura Cgil unitaria.
Destinato a diventare, a guerra finita, uno dei massimi leader della nuova confederazione, Buozzi, fu, invece, catturato il 13 aprile 1944 e fucilato alla periferia di Roma dai nazisti in fuga, il 4 giugno dello stesso anno, a poche ore dalla liberazione della Capitale da parte degli alleati. Una perdita irreparabile, non soltanto per il sindacato, che condizionerà pesantemente in negativo lo sviluppo e il radicamento di una prospettiva riformista e autonomista tra i lavoratori e nella sinistra italiana del secondo dopoguerra.
È evidente, infatti, che con Buozzi segretario generale del sindacato unitario, la competizione per la leadership della sinistra si sarebbe svolta in condizioni più favorevoli ai socialisti autonomisti, mentre, dopo la sua scomparsa, in assenza tra le fila del Psi di un successore altrettanto autorevole e prestigioso, Di Vittorio e la componente comunista si trovarono la via spianata per la progressiva conquista della principale organizzazione dei lavoratori.