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 2011  gennaio 31 Lunedì calendario

POCHE INDUSTRIE E REGIMI CORROTTI, L’AFRICA E’ FUORI DALLE ROTTE GLOBALI


La rivolta che infiamma il Nord Africa e che in queste ore ha il suo epicentro in Egitto è una delle tante facce di una globalizzazione che ha fatto crescere l’Asia ma non l’Africa. Con quest’ultima che si è mossa solo modestamente lungo la direttrice della produzione manifatturiera, l’unica che può realmente portare le economie emergenti verso uno sviluppo solido con ricadute ampie e progressive sul tessuto sociale in termini di generazione di redditi, modernizzazione ed innovazione (la Cina insegna…).
L’Africa, persino quella più dinamica, sin qui è rimasta relativamente ai margini delle nuove relazioni globali della creazione del valore ed ha basato il suo sviluppo soprattutto sullo sfruttamento delle proprie ingenti disponibilità di energia, metalli e materie prime agricole, con l’iniezione di un po’ di turismo.
Ma l’industria, eccettuata quella estrattiva legata al petrolio e al gas, ha attecchito poco. Al punto che nel 2009 il valore aggiunto manifatturiero complessivo di Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria e Libia, secondo la Banca Mondiale, assommava soltanto 54,3 miliardi di dollari, oltre 25 miliardi meno di quello della Polonia e circa 1/3 di quello dell’Indonesia.
Nessuno, neanche i centri specializzati nelle analisi strategiche, ha previsto una crisi come quella a cui stiamo assistendo sulla sponda meridionale del Mediterraneo, con tensioni sociali così gravi e tanti regimi di lunga data giunti all’improvviso al capolinea o prossimi a sgretolarsi. La fiamma della rivolta si è propagata dalla Tunisia all’Egitto ed ora la spirale potrebbe estendersi all’Algeria e al Marocco mentre un diffuso malessere attraversa anche la Giordania e il poverissimo Yemen più a Sud Est.
Nonostante l’enfasi mediatica, le nuove tecnologie dell’informazione (internet, social network, ecc.) hanno influito soltanto in misura limitata nell’accelerare il “contagio” dei disordini: il semplice tam tam della povertà continua a risuonare da solo già abbastanza forte da Tunisi sino al Cairo e sono sufficienti le immagini di un po’ di vecchia radio-tv che mostrano il propagarsi delle proteste per infiammare ulteriormente gli animi. Solo a rivolta iniziata il regime ha ordinato di “spegnere” la rete. Ma al mondo ricco, che ha duramente colonizzato l’Africa per decenni e poi l’ha abbandonata a se stessa, piace pensare in chiave liberatoria che un po’ della sua tecnologia oggi possa portare più democrazia laddove finora ve ne è stata ben poca.
Soltanto pochi mesi fa il Programma di Sviluppo dell’ONU e l’Istituto Nazionale per la Pianificazione hanno pubblicato un rapporto congiunto sull’Egitto che sprizzava ottimismo da tutti i pori sulle grandi opportunità di crescita di questo Paese di ben 84 milioni e mezzo di abitanti (“Egypt Human Development Report. Youth in Egypt: Building Our Future”). Il rapporto sottolineava il fatto che ¼ della popolazione egiziana è costituita da giovani tra i 18 e i 29 anni desiderosi di emanciparsi professionalmente e di formarsi una famiglia. Ma lo stesso documento riconosceva che il 90% circa dei disoccupati ha meno di 30 anni e che soltanto nei mille villaggi egiziani più emarginati vivono oltre 5 milioni di persone in condizioni di povertà estrema. La povertà nelle zone rurali ha generato intensi fenomeni migratori verso le città ed oggi la periferia della “grande Cairo” è una gigantesca bidonville.
Più in generale, nei cinque principali Paesi del Nord Africa, dove vivono complessivamente 173 milioni di persone (come all’incirca Italia, Francia e Gran Bretagna insieme), le reali opportunità di sviluppo per i giovani (al di là dei dati sulla crescita del PIL degli ultimi anni, che hanno alimentato entusiasmi ma che non tengono conto delle persistenti disuguaglianze) per ora sono ben poche.
La miscela di regimi autoritari, corruzione, sfruttamento delle risorse naturali e turismo, più un po’ di opportunistica delocalizzazione industriale proveniente dall’Europa, ha lasciato il Nord Africa molto indietro nelle classifiche dello sviluppo umano dell’ONU: la Tunisia, ad esempio, è all’81esimo posto, l’Egitto al 101esimo. In Marocco il reddito nazionale lordo per abitante è inferiore ai 5.000 dollari (a prezzi costanti 2008 a parità di potere d’acquisto), in Egitto non raggiunge i 6.000 dollari e in Tunisia ed Algeria si aggira intorno agli 8.000 dollari (in Italia, per un confronto, è di 29.600 dollari). In tutti i 5 maggiori Paesi nordafricani la percentuale di adulti con un patrimonio finanziario ed immobiliare superiore ai 100 mila dollari non supera lo 0,6-3,6% del totale (in Italia è oltre il 55%). Non è l’integralismo islamico che spinge le proteste ma la povertà, esasperata dai recenti rincari delle materie prime agricole: la rivolta del pane non nasce dalla fede ma dallo stomaco. In Egitto, secondo la Banca Mondiale, quasi il 20% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno (a prezzi 2005); di certo questa povera gente non ha grande familiarità con Twitter o Facebook ma sa sicuramente cos’è la fame.
L’UE e l’Italia guardano con preoccupazione ai disordini e all’anarchia che, dopo la crisi tunisina, ora minacciano l’Egitto. Se i venti della rivolta dilagassero e si estendessero ad altri Paesi del Nord Africa, il pericolo immediato maggiore potrebbe essere quello di nuove ondate migratorie verso l’Europa.
Minori appaiono invece i problemi sul fronte dei rapporti economici in senso stretto, al di là delle incertezze e dei possibili disagi degli operatori. Qualunque sia l’esito delle rivolte, l’Egitto o la Tunisia, così come eventuali altri Paesi del Nord Africa che rischiano di essere colpiti dal “contagio” dei tumulti, non hanno nessun interesse a boicottare l’Europa, a cui vendono tanta energia; per non parlare del turismo.
Con i 5 principali Paesi del Nord Africa, l’interscambio italiano assomma complessivamente a 31,5 miliardi di euro, cioè 20 miliardi di importazioni (di cui 16 miliardi di sola energia da Libia ed Algeria, più altri 700 milioni di idrocarburi e derivati della raffinazione petrolifera dall’Egitto) e 11,5 miliardi di esportazioni. Ha molto più bisogno il Nord Africa dell’Italia che non viceversa. L’Italia è il primo mercato di esportazione per Egitto e Libia, il secondo per Algeria e Tunisia e il quarto per il Marocco.
In Egitto, il Paese oggi più al centro dei disordini, l’Italia esporta soprattutto apparecchi e macchine per l’industria e impieghi civili (1 miliardo di euro), metalli e prodotti in metallo (360 milioni), chimica (260 milioni) e apparecchi elettrici (200 milioni). Prodotti di cui l’Egitto ha molto bisogno per il suo sviluppo, comunque la rivolta vada a finire.