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 2011  gennaio 29 Sabato calendario

IL GIORNALISTA “EMBEDDED”, PRIGIONIERO DELLA VERITÀ

Il giornalismo embeddeds’è fatto una brutta reputazione in Iraq e in Afghanistan. Purtroppo ha finito per consegnarci l’immagine del corrispondente “al seguito” che, invece di fare il suo mestiere, viene imboccato dai militari con le consuete, massicce dosi di ottimismo sull’andamento della guerra. A molti la cosa ha ricordato i corrispondenti dal fronte della Prima guerra mondiale che descrivevano quelle carneficine insensate come avanzate accuratamente pianificate dai comandi militari.
Ovviamente seguire i soldati sul campo di battaglia è il solo modo per procurarsi informazioni di prima mano e i giornalisti, spesso presi di mira da al Qaeda e dai talebani, non possono avventurarsi da soli in zone pericolose dell’Iraq o dell’Afghanistan.
Ma non è stato sempre così. Quando cominciai a inviare delle corrispondenze dall’Irlanda del Nord negli anni ’70, probabilmente quella del giornalista era la professione più sicura del mondo. Scherzando ero solito dire che i gruppi paramilitari nominavano un addetto stampa ancor prima di comprare le armi. Qualche anno dopo in Libano le milizie davano dei salvacondotti ai giornalisti. I libanesi sono accaniti lettori di giornali e per accattivarmeli bastava regalare qualche copia ai soldati annoiati ai posti di blocco. Ma nel 1984 proprio in Libano i miliziani appoggiati dall’Iran iniziarono a rapire i giornalisti per esercitare pressioni sui loro governi.
In queste circostanze il solo modo per raccogliere informazioni diventa quello di diventare embedded anche se in questo modo si finisce per avere una visione sfocata degli eventi in quanto i giornalisti non possono non essere influenzati dal punto di vista dei soldati. Inoltre si tratta di una situazione che limita la libertà di spostamento. La maggior parte dei corrispondenti in Afghanistan dal 2006 sono stati confinati nelle più sicure province di Helmand e Kandahar e quindi ci hanno messo del tempo a capire in che modo i talebani erano riusciti ad avere il controllo del territorio fino alla periferia di Kabul.
Il guaio del giornalismo embedded è che ti trovi spesso nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel novembre 2004 i Marines americani attaccarono la città di Fallujah, a ovest di Baghdad, che era sotto il controllo degli insorti. Le truppe erano accompagnate da quasi tutti gli inviati speciali che fecero un ottimo servizio, specialmente alle forze armate americane di cui cantarono la vittoria. Sta di fatto che i servizi erano in qualche misura fuorvianti in quanto gli insorti, puntando proprio sul fatto che gli americani avevano concentrato a Fallujah il grosso delle forze, aveva attaccato la città molto più grande di Mosul nell’Iraq settentrionale riuscendo a occupare 30 stazioni di polizia, a mettere in fuga l’esercito iracheno e ad impossessarsi di armamenti per 40 milioni di dollari.
Ma il giornalismo embeddedha un altro più impercettibile svantaggio: induce i giornalisti a considerare solo l’aspetto militare di conflitti come quello in Iraq e in Afghanistan trascurando l’evolversi della situazione sotto il profilo politico. Molti negli Usa hanno finito per credere, come si crede alla Bibbia, che le forze armate americane hanno finalmente vinto la guerra in Iraq nel 2007-08 grazie all’invio di 30.000 rinforzi e a un cambio di strategia. Si trattava di una spiegazione rassicurante, data per di più in periodo elettorale e chiunque si fosse azzardato a dire che le cose non erano andate così sarebbe stato accusato di anti-americanismo. In realtà la situazione irachena era estremamente complessa e si era andata evolvendo per ragioni quasi tutte interne all’Iraq: i sunniti erano stati sconfitti dalle forze di sicurezza e dalle milizie sciite, erano stati cacciati da Baghdad e, come mossa disperata, avevano deciso di allearsi con gli americani.
Grazie a un giornalismo poco informato, il generale David Petraeus è diventato il più prestigioso e popolare ufficiale americano. Solo ora cominciano a circolare informazioni sul sostanziale fallimento della sua strategia in Afghanistan. La realtà è che anche in Afghanistan non ha senso separare l’andamento delle operazioni militare dagli sviluppi politici. Il governo afgano è notoriamente corrotto e non gode né della stima né della fiducia degli afgani. Tutti i servizi giornalistici continuano a parlare di scaramucce con i talebani e di operazioni militari. Tutte cose che hanno ben poco senso se si pensa che nel-l’80% del territorio, lo Stato non esiste. Un diplomatico mi ha detto: “La realtà che il giornalismo embedded non rivela è che il 60% dei soldati dell’esercito afgano inviati nella provincia di Helmand o di Kandahar disertano appena possono. Sono per lo più tagiki terrorizzati all’idea di andare a combattere nel sud a maggioranza Pashtun”.
Non è difficile fare i corrispondenti di guerra; difficile è farlo bene. La guerra suscita passioni tali che non è facile conservare la freddezza e il necessario distacco giornalistico nelle stesse redazioni. Telespettatori e lettori si aspettano sensazioni forti. Ma questo melodramma, in Iraq e in Afghanistan, è stato ingannevole e ha nascosto la verità. Il giornalismo embeddedrende sì meno obiettivi, ma ci sono molti giornalisti sufficientemente intelligenti da resistere alle lusinghe della propaganda militare e da evitare di trasformarsi in semplici portavoce dei comandi militari. La colpa più grave del giornalismo embedded? Sottovalutare la brutalità di qualunque occupazione militare e la reazione ostile della popolazione locale.
Copyright The Independent - Traduzione di Carlo Antonio Biscotto