Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 30/01/2011, 30 gennaio 2011
LA MIA PITTURA E’ COME UN ROCK
Pittore, scultore, ceramista, disegnatore di fumetti, grafico, illustratore, autore di collage, scrittore, collezionista di pubblicazioni futuriste. Pablo Echaurren è noto per il suo «pluriverso» , derivato dalla necessità di abbandonare un mondo a senso unico (uni-verso) e costruirne un altro lontano dal conformismo e dall’assuefazione (secondo la definizione data da Arturo Schwarz, suo primo gallerista agli inizi degli anni Settanta). Ma pochi conoscono la passione di Echaurren per i bassi. Intesi nel senso di chitarre elettriche. «Da tempo — racconta — ho un sogno ricorrente: di trovarmi dentro un negozio di bassi. Nel sonno ne percepisco perfino l’odore, quell’inconfondibile ed entusiasmante fragranza di vernici sintetiche, di legni resinosi, di corde» . Da una decina di anni l’artista tenta di realizzare il sogno raccogliendo chitarre elettriche storiche, trovate soprattutto tra i rivenditori americani o acquistate su e-bay. Le ha accumulate in un appartamento dalle parti di ponte Milvio a Roma. Settanta pezzi, ognuno racchiuso nelle sua custodia nera o marrone, grande a misura d’uomo. Custodie accatastate una sull’altra ovunque: nella grande sala trasformata in studio, in cucina, dentro gli armadi a muro. Di ogni pezzo Echaurren conosce tutti i segreti: chi l’ha progettato, dove è stato costruito, chi sono i musicisti più famosi che l’hanno suonato e in quali concerti. Apre le custodie e si sprigiona un mondo di luce, emanato dai rivestimenti in velluto color giallo oro, verde smeraldo, turchino. Adagiati all’interno, come gioielli, ecco i bassi: elegantissimi, con i corpi sottili e curvilinei, i lunghi colli slanciati, i legni pregiati, le vernici brillanti. Echaurren spiega che la sua passione per questi strumenti nasce proprio dalla bellezza della loro forma: «Anche se sono costruiti con intenti puramente funzionali e non estetici, alla fine risultano opere d’arte» . Lui e i bassi hanno la stessa età: nascono nel 1951. Pablo il 22 gennaio, dall’unione tra il grande surrealista cileno Sebastian Matta e l’attrice siciliana Angela Faranda. All’anagrafe fu iscritto come Pablo (da Neruda), Miguel, Papageno (da Mozart), Matta, Echaurren (dal cognome della nonna paterna di origine basca). L’impiegato comunale, confuso da tutti questi appellativi, trascrisse solo l’ultimo, che si pronuncia eciàurren, un suono «a metà tra il rumore di uno starnuto e quello di una macchina in corsa» , come dice la moglie Claudia Salaris, studiosa del Futurismo. Matta lasciò la famiglia quando il figlio era ancora piccolo e Pablo crebbe introverso, ansioso e ribelle. Da bambino restava chiuso nella sua camera, circondato da libri e figurine di dinosauri. «Volevo fare lo zoologo, l’entomologo, il paleontologo. Avrei voluto specializzarmi nei coleotteri. Leggevo Jean-Henri Fabre piuttosto che Salgari» . Nasce da lì la mania di catalogare, espressa nei primi disegni inscritti in una serie di quadratini, e l’immaginario di mostri che oggi riempiono i suoi grandi quadri. Poi arrivarono i Beatles. «Una rivoluzione per la musica e per l’immagine che un maschietto aveva di sé: quella di un uomo non più macho, ma con movenze gentili, l’inchino, le scarpe coi tacchi» . A sedici anni frequentava il Piper. «Mi facevano entrare gratis perché avevo un aspetto un po’ esagerato, capelli lunghi e stivaletti a tacchi alti, che a Roma era difficile trovare. Me li facevo fare da un calzolaio compiacente, che però mi guardava con aria compassionevole pensando che fossi gay» . Abbandona i coleotteri e decide che da grande farà il bassista. «All’epoca, in Italia il rock era considerato roba sospetta, ammantata nel più fitto mistero, come ogni divinità che si rispetti. I dischi più tosti venivano introdotti nel nostro Paese da indomiti borsari neri che facevano la spola con i Paesi sopra sviluppati. E sulle copertine noi ricamavamo. Quando mi capitava tra le mani una foto degli Stones non mi soffermavo tanto su Mick, Keith, Brian o Charlie, ma mi incantavo su Bill il bassista, il meno bersagliato dalle attenzioni delle fan. Il più sfigato, ma non per me che lo vedevo come il più forte dei cavalieri, di quelli che senza troppe manfrine reggono i destini della propria gente. Impassibile, imperscrutabile, emaciato, concentrato sul giro di basso e distaccato dalla baraonda che circondava la band, mi riconciliava con la mia umbratile condizione di isolato» . Pablo acquista il suo primo basso, un Framus usato, lo stesso tipo usato da Bill, e comincia a suonare in un complessino. «Ma ero una schiappa. Sperando che dipendesse dallo strumento e non dalla mancanza di talento musicale, svendo la mia robusta collezione di francobolli dello Stato Pontificio e compro un signor Precision. Credevo che un Fender avrebbe fatto di me uno scafato musicista. Restavo una sega totale. Così appesi il basso al chiodo e amen» . A diciott’anni, ancora sui banchi del liceo, incontra Gianfranco Baruchello che lo inizia alla pittura. Il basso lo dimentica a casa della madre, che dopo un po’ lo regala a un ragazzetto di passaggio. «Oggi varrebbe una bella cifra» . Finché, una decina di anni fa, la moglie «in vena di scherzi da prete mi regala un nuovo Precision, risvegliando in me la bestia che ronfava. Da quel giorno non ho più smesso di inseguire un sogno troppo a lungo rimosso» . Accumula bassi nel suo studio, ma non solo. Le chitarre elettriche invadono i grandi quadri e i piccoli collage. Il rock trasforma le tele realizzate dopo il Duemila, dove compare il dripping, ma non nella chiave informale usata da Pollock, bensì, dice Claudia Salaris, «guidato in forme a pettine che rimandano al basso continuo, o dilatato in raggiere circolari che richiamano le esplosioni della batteria, o soffiato come una voce nella vasta gamma che va dai sussurri alle grida» . E ora Echaurren fa entrare il rock in rotta di collisione con il barocco, non solo per facile assonanza, ma perché le due correnti artistiche, così lontane nel tempo, hanno influenzato entrambe il suo lavoro. Improvvisamente ha capito quanto abbiano in comune: «Entrambe non si sono limitate a rappresentare uno stile, ma hanno cercato di mettere in rapporto l’arte e la vita, infrangendo limiti, regole e codici. Il rock, con i suoi ritmi ossessivi, produce lo stesso spiazzamento, la stessa perdita di identità che gli artisti barocchi perseguivano con la poetica del sensazionale, l’allegoria, il metamorfismo, il grottesco» . Così, mentre è ancora in corso al Museo della Fondazione Roma la grande retrospettiva dell’artista, Crhomo Sapiens, che il presidente Emmanuele Emanuele sta pensando di prorogare oltre il 13 marzo dato l’imponente afflusso di pubblico, al Macro si apre l’ 11 febbraio Baroque’n’roll, con sei edicole «sacre» , realizzate da Echaurren in maiolica policroma faentina, che custodiscono diverse forme di bassi come divinità dentro un tempietto. Vi compaiono, tra gli altri, il celebre Precision, ideato nel 1951 da Leo Fender per semplificare il contrabbasso e renderlo accessibile anche ai chitarristi e considerato il primo basso elettrico prodotto al mondo su larga scala, così chiamato perché consentiva la massima precisione nell’intonazione. E quelli prodotti in Italia, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, da aziende specializzate fino ad allora in fisarmoniche e organetti. Come il basso Vox, a forma di goccia, reso famoso dai Beatles e poi appaltato dall’azienda inglese ai costruttori Eko e Crucianelli di Castelfidardo nelle Marche. O il Cobra di Wandré, il cui vero nome era Antonio Pioli, nato nel 1926 a Cavriago (Reggio Emilia). Per marchiare le sue chitarre usò il nomignolo che il padre, intralciato dall’agitarsi del ragazzo in laboratorio, gli aveva affibbiato, e che in dialetto reggiano significa «vai al diavolo» . Fu tra i primi a sperimentare tecniche di finitura come il nero fumo delle candele, lo spray e persino vere pitture a olio date su singoli esemplari firmati.
Lauretta Colonnelli