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 2011  gennaio 30 Domenica calendario

QUELL’IMBARAZZO SUL DEBITO PUBBLICO

La proposta di privatizzare metà del debito pubblico italiano, fatta da Pellegrino Capaldo in un’intervista al Corriere del 26 gennaio, è stata assimilata, pur non essendolo, a un’imposta patrimoniale di grandi dimensioni e come tale respinta da uno schieramento politico che va da Berlusconi alla segreteria di Bersani. In alternativa si propongono privatizzazioni e tagli della spesa pubblica. Ma la veemenza della reazione— sul Foglio, con grazia sovietica l’ex vicepresidente dell’Eni, Francesco Forte, ha parlato di matti— rivela l’imbarazzo dei più davanti al nodo che Capaldo affronta: come abbattere radicalmente e rapidamente il debito pubblico.
Chi fosse tranquillo con un debito pubblico al 120%del Pil, che costa 80 miliardi l’anno e anche più se i tassi risaliranno, potrebbe respingere a scatola chiusa le idee di Capaldo. Ma quanti sono gli struzzi? Nemmeno chi ritiene equo considerare anche il settore privato nella valutazione del rischio Italia può dimenticare che la ricchezza delle famiglie non garantisce di per sé la solvibilità dello Stato. La solidità patrimoniale di famiglie, imprese e banche può certo evitare la necessità di salvataggi a spese dell’Erario, ma non riduce il rischio sovrano esistente.
Come intervenire dunque sul debito pubblico, e in quanto tempo? Se si accetta di procedere con grande gradualità, Capaldo può essere di nuovo accantonato. Ma se si dice di aver fretta e si suggeriscono come rimedio le privatizzazioni e la disciplina di bilancio, allora si deve ricordare che le privatizzazioni più remunerative l’Italia le ha già fatte e che il saldo primario tra entrate e uscite correnti è stato positivo per parecchi anni. E tuttavia è bastata questa crisi per riportare i conti pubblici al 1992, quando i tassi, essendo alti, potevano scendere e c’era ancora tutto da vendere. Oggi non è più così. I tassi sono al minimo storico e in campagna elettorale Berlusconi può pure promettere di cedere patrimonio pubblico per 700 miliardi, ma poi nemmeno ci prova. Anche perché il numero è teorico. Gli oggetti ancora vendibili sono le partecipazioni in Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Stm, Poste, e poi il Poligrafico, la Fincantieri, l’Anas e la Rai: 50-60 miliardi, ad andar bene. Le ex municipalizzate quotate aggiungono poco. Le altre sono robetta. Gli immobili migliori sono stati cartolarizzati da anni. Capaldo parla di una manovra da 8-900 miliardi, che farebbe risparmiare per sempre oltre 40 miliardi l’anno di interessi. Le privatizzazioni residue daranno forse un decimo. E poi? Taglio della spesa pubblica. Bene, ma quante volte l’abbiamo sentita? E quali capitoli di spesa andrebbero tagliati e quanto? Silenzio. Parlano, invece, gli Usa, dove lo Stato è minimo e il debito pubblico è diventato massimo.
Capaldo ha lanciato una provocazione che va forse capita meglio ma sarebbe certo più forte se fosse accompagnata da un disegno di legge costituzionale alla tedesca per stabilire l’obbligo di chiudere almeno in pareggio il bilancio primario dello Stato e dalla scelta politica di destinare il risparmio sugli interessi alla riduzione delle imposte sulle imprese e sul lavoro per rilanciare la crescita.
Massimo Mucchetti