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 2011  gennaio 31 Lunedì calendario

I MIEI PROCESSI FINTI DIVENTATI UNA REALTÀ DA INCUBO

Mi accadde, sette anni or sono, di indossare una toga e di fare una dozzina di processi televisivi. Ma io scherzavo. Anzi, credevo di scherzare e ora non mi resta che chiedere perdono. Perché sapete tutti com’è andata a finire: le tv e i giornali la toga l’hanno indossata sul serio. Hanno preso lo scherzo in parola, esercizio tra i più crudeli, e hanno rovinato le nostre libertà.
Il primo processo in tv, in Italia, andò in onda su Raitre in prima serata, un martedì dell’autunno 1987. L’imputato era Armando Verdiglione, psicoanalista accusato di due reati ambiguamente collegati: plagio ed estorsione. Io ero il pubblico ministero; c’erano i testi di accusa e difesa, gli inserti filmati intesi come prove documentali, le voci tonanti dell’opinione pubblica collegata via telefono e un sondaggio-sentenza finale, in risposta a una domanda che noi autori della trasmissione, Lio Beghin ed io, avevamo formulato: «Esistono ancora gli stregoni?» Trasmissione lunga, che si inoltrava nella notte. Trasmissione “nuova” e di sicuro successo. Ore di divertita e cinica mattanza. Il professor Verdiglione, già ferito a morte dalla giustizia dei tribunali, ne uscirà distrutto. La gogna funziona. Funziona sempre.
E il Pm? Beh, devo essere sincero. Ne uscì ricco, adulato a sinistra e a destra, forte sul mercato improvvisamente scoppiato del giornalismo-spettacolo. E per molti anni la gente per strada mi chiamava “avvocato” o mi scriveva intestando a “vostro onore” come nei film di Perry Mason. Non essendo un liberale, e non disponendo di una rigorosa cultura delle regole se non per averla acquistata un po’ tardi, non avevo capito niente di quello che avevo fatto e di ciò che significava. La toga, la tv, l’imputato alla sbarra (per ora metaforica e disegnata da una scenografia), i test, le prove, il sondaggio-sentenza dopo il parere del pubblico, un sondaggio telefonico che funzionava a logica binaria... la domanda e la risposta. Domanda: «Esistono ancora gli stregoni?» Risposta del teleutente: «Sì» o «No». Una sentenza senza motivazioni, giocata sull’immagine e sulla lotta tra immagini: chi è più bravo, chi più abile, chi più simpatico? Il conduttore, il giornalista-magistrato o l’imputato?
Chi è più convincente, quel felice ciccione che sembra Charles Laughton (secondo la critica di Beniamino Placido, un coerente entusiasta di tutte le gogne) o quell’infelice psicoanalista travolto da storie di magistero e discepolato, di ricche fondazioni e di opachi esoterismi? Le regole, le garanzie? Macché. C’è un metodo più spiccio e gratificante per decidere di una reputazione e di una vita.
Mi sono spesso domandato, sei-sette anni dopo, quando ho visto Di Pietro in tv e prima di lui i “processi in pretura”, quando ho visto il gioco della vittima e del
carnefice in azione dispiegata, come potessi non sputarmi da solo in un occhio... E l’unica risposta che ho trovato è quella che ancora oggi mi consola e mi giustifica di fronte a me stesso: io scherzavo, e presto (per non so quale istinto) smisi di scherzare. (...)
Io scherzavo. Però quel travestimento era una grottesca premonizione. Nel corso degli ultimi anni il Circo raccontato da Soulez Larivière ha piantato le tende nel cuore del mio Paese, e intorno alle gesta e alle volute e ai mille numeri dei suoi acrobati e clown si leva sempre più forte l’applauso della folla. Una folla feroce, quieta e domenicale nella sua apparente bonarietà, ma virtuosa e linciatoria come tutte le folle. (...) La storia sputa sentenze che appartengono a lei sola, e la giustizia non deve imitarla, rincorrerla, ricalcarla, mescolarla a sé. Ne va del Vero giuridico, quell’approssimazione al fatto “come è accaduto” che ha un senso soltanto se non è intuizione, giudizio o accertamento storico, soltanto se si fonda su garanzie liberali di cui uno storico non saprebbe come servirsi.
Ma quando un giornalista si traveste da giudice, e un giudice da giornalista, allora la base delle nostre libertà è non già incrinata o messa in mora ma letteralmente distrutta. Lo scambio delle parti ha per il Vero giuridico, per il massiccio marmoreo delle leggi e dei codici, l’effetto devastante di un terremoto. E ha l’effetto letale di un veleno per la libertà di stampa e il suo esercizio. Raccontare e opinare: questo fanno i giornalisti o dovrebbero fare. E invece eccoli lì, con il dito alzato, privi di ironia e privi di gusto per l’autocontraddizione, ferrei nel perseguire lo scopo corporativo dell’autopromozione e dell’autotutela. Eccoli in azione: giudicano, giudicano e mandano parlando non per fondi ed elzeviri, ma per atti e per sentenze. Questo è ladro e questono,questoèonestoe
no. Commetti suicidio a San Vittore con un sacchetto di cellophane avvolto alla tua testa, e avrai diritto a una mezza lacrima riparatoria. Se sopravvivi, peggio per te.
Com’è naturale, per un giornalista che giudica troverai sempre un giudice che informa, che racconta e opina come mai, mai al mondo dovrebbe fare. Ed eccolo lì, Di Pietro versus Cusani, eccolo lì che si questo no, ecco il colpevole, gli altri sono innocenti; guardatelo nei nostri titoli, nelle fotografie, nei fotogrammi solenni del nostro tribunale mediatico: come potete pensare che quello lì non sia responsabile delle cose che gli attribuiamo? Giudicare, dunque, è ormai la norma.
Le pagine dei giornali e dei telegiornali sono immensi schedari, archivi pubblici e viventi del cadavere del segreto istruttorio. Gli ordini di cattura partono via etere, nelle ore di massimo ascolto; la perquisizione personale è disposta via rotativa, e ogni copia è un affronto singolare e irreparabile a quello straccio retorico e umidiccio e impresentabile che sarebbe la dignità della persona e il diritto del cittadimette e si leva la toga, e urla e strepita, e gigioneggia alquanto, ma senz’ombra di ironia, come un conduttore o un opinionista qualunque. Ecco il magistrato ignoto che fa filtrare il nome del suo personale “inquisito”, che spicca il mandato nel momento mediatico più spettacolare e opportuno; eccolo che bisbiglia e sussurra, passa documenti come un cronista di pretura, suggerisce ipotesi, varianti, allude e spiega, racconta e opina liberamente, alla caccia anche lui, proprio lui, soprattutto lui, del titolo di prima e dell’apertura di Tg. Il celebre incipit di Kafka, oggi, bisognerebbe riscriverlo così. «Doveva essere successo qualcosa di grave, perché il Procuratore si presentò in tv con la maglietta sbiadita e la voce rotta...».