Silvia Nucini, Vanity Fair, 29 gennaio 2011
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Dice che il mondo si divide in due: i lungagnoni e i tarchiati. Dice che i tarchiati non li ammazzi mai, perché sono forti e guardano il mondo dal basso, con il punto di vista dei carrarmati. E quando si incazzano arrivano ovunque, quindi sono pericolosissimi.
E i lungagnoni che fanno?
«Vanno lontano e veloci».
La teoria evoluzionistica di Lorenzo Cherubini, ancorché non scientifica, potrebbe avere del fondamento, almeno a giudicare da lui, lungagnone a pieno titolo, che lontano e veloce ci va spesso. Il suo studio – all’ultimo piano della casa di Cortona – racconta delle sue fughe in avanti e dei suoi scarti laterali: tigri, santi, libri, dischi, foto, il mate da bere, il computer che «a volte rende inutile partire per davvero».
Qui e nello studio-cantina tre piani sotto è nato ORA, il suo ultimo disco. Nove mesi di gestazione (raccontati nel libro epistolare Viva tutto!, scritto con Franco Bolelli, Add Editore) per 15 tracce assolutamente dance (25 nell’edizione deluxe) di cui Lorenzo/Jovanotti è felicissimo, «come se avessi sedici anni», racconta cercando di tenere le gambe lunghe composte sotto la sedia. Perché qualche volta anche i lungagnoni si devono fermare.
Ha detto che questo è il suo disco più importante. Ma lo dice sempre quindi non vale.
«È vero: lo dico e soprattutto me lo dico sempre, ma questa volta ancora di più. Dopo il successo di Safari me la facevo sotto. Dovevo uscire da quel pantano dorato, e secondo me ce l’ho fatta».
Ormai avrà il mestiere.
«Il mestiere non ti aiuta nel risultato. Solo a riconoscere le cose forti, non a crearle. Come nasca un buon pezzo è sempre un processo misterioso: alcuni successi li fai in sei ore, altri in dieci anni».
Dieci anni con in testa la stessa canzone? Che noia.
«E invece non è noioso: io vivo dentro le mie canzoni, mi fanno compagnia. Le porto in studio sotto forma di un’idea, una frase: cioè niente. Un niente su cui lavoro coi miei musicisti per mesi. Si suona tutto il giorno, si fa tardi, si esce a cena, poi si torna qua e pensi che hai voglia di andare a letto. Ma sono abbastanza grande da sapere che è proprio quando vorresti mollare che le cose succedono, e allora dico: no ragazzi, facciamo ancora mezz’ora. E di solito è in quella mezz’ora che nasce una cosa buona. Se il mestiere mi ha insegnato qualcosa è questo: prima andavo a letto, adesso no».
ORA è tutto da ballare e per nulla militante. Non ha paura di deludere qualcuno?
«Ho fatto una scelta di onestà intellettuale: ci ho provato, lavorando a questo disco, a fare una musica impegnata, ma riascoltandola sentivo che non aveva respiro. Questo disco è impegnato, ma nel senso in cui la musica lo deve essere: nell’intento di far star bene la gente. Il mio mestiere è fare pubblicità alle cose belle del mondo, questo è il mio talento, la mia indole, ciò che mi viene bene».
Far stare bene è un atto politico?
«Lo è fare bene il proprio lavoro, lo è comunicare impegno e dedizione. Adesso sta passando una sensazione pericolosa: che è tutto uguale. Che tutti gli uomini di fronte a un culo si comportano allo stesso modo, che fare le cose tirate via o bene è la stessa cosa. Ma non è vero per niente: le scelte fanno la differenza, sempre. E si può scegliere sempre».
Dice nel suo libro che la musica bella nasce sempre da una condizione di svantaggio. Qual è il suo svantaggio?
«Quando ho cominciato avevo quattordici anni e volevo comprarmi le Adidas, sfondare, dimostrare a me stesso di avere un valore e un posto nel mondo. E anche – e se ci penso adesso che lei non c’è più questa cosa assume un senso ancora più profondo – far ridere la mia mamma, sapere che era orgogliosa di me, alleviarle un po’ la fatica di dover tirare su quattro figli. Ognuno di noi ha la sua molla, ognuno ha la sua fame che spinge verso la passione. Quando ripenso alla mia e vedo che mia figlia Teresa ha tutto, ha troppo, mi chiedo che cosa posso fare per aiutarla a trovare la sua strada. Penso che posso solo pregare perché le si accenda la lampadina, quella lampadina è la più grande fortuna che si possa avere nella vita».
E lo svantaggio, la molla di oggi, qual è?
«Sono io il mio svantaggio, la mia voglia di fare sempre meglio. Io questa cosa ce l’ho ancora. Tanti, poi, con le bollette pagate, smollano, ed è legittimo, lo capisco. Ma io mi sento sempre come il soldato Ryan, a cui viene detto “meritatelo”. Sempre un po’ in difetto».
Perché in difetto?
«Perché non sono un cantante, perché mi sento in debito, perché quando ascolto Frank Sinatra mi tremano le gambe. Però ho scoperto che il vecchio Frank ha studiato canto tutta la vita, sembrava che gli bastasse aprire la bocca e invece dietro c’era il lavoro. Lavoro, lavoro, lavoro: la mia droga da quando avevo diciotto anni. Ma ci sono droghe peggiori».
Infatti lei non si è mai perso. Come ha fatto?
«Tutti inciampiamo. La domanda è se c’è qualcuno lì, accanto a noi, pronto ad aiutarci a rialzarci. E io ce l’ho avuto. Il rischio vero di certi destini è di affezionarsi ai propri inciampi, di entrare in un’ottica per cui le tue malattie sono le tue compagne di viaggio: ci si innamora delle proprie sfighe. Tempo fa sono stato in un centro di cura dei disturbi alimentari, e lì ho incontrato queste ragazze superintelligenti che si costruiscono dei teatrini interiori in cui il loro problema diventa la loro forza. Ed è un gioco al massacro in cui si muore. Solo l’amore ci salva».
A proposito di amore: in questo disco ce n’è meno. Come mai?
«Dopo A te e Baciami ancora ero in overdose».
Posso confessarle una cosa? Io A te non la posso sentire.
«Stufa?».
No, irritata: a me quelle cose non me le ha mai dette nessuno.
«Ma gliele sto dicendo io».
Non è la stessa cosa.
«E invece sì: le canzoni funzionano per questo. Comunque anche a me capita, per esempio con quella canzone, di sentirmi a disagio. Come se stessi camminando su un crinale sottile tra il ridicolo e il sublime. Io è sempre lì che voglio stare, perché è pericoloso, perché è il punto perfetto in cui stanno le mie canzoni. Un po’ in qua e sarebbe stata una cagata, un po’ in là e sarebbe stata pretenziosa. Ma in quel punto preciso funziona, sta in piedi, è in equilibrio. La stessa cosa mi è successa con Penso positivo, il pezzo su Che Guevara e Madre Teresa io lo sapevo che era lì lì, ma i pensieri non li pensi, i pensieri arrivano e allora mi dico che se arrivano bisogna anche seguirli, tirarli fuori. E stare a vedere che succede».
Comunque dovrebbe parlare anche degli amori sofferti.
«Ma io sono uno stilnovista. E anche se ammiro la poetica lamentosa, e la consumo come ascoltatore, sono però convinto che le canzoni d’amore funzionano anche da contrappunto, ti piacciono quelle cose perché non le hai. Bisogna avere il coraggio di sognare».
Bel tema. Compatibile con l’aria che tira in questo Paese? O per farlo bisogna cambiarla l’aria?
«Attenzione, qui siamo a Fazio e Saviano: rimango perché, vado via perché. Io credo che il luogo sia diventato irrilevante e sono la persona sbagliata a cui fare questa domanda perché io in Italia ci sto e non ci sto, e con quella macchina lì (indica col mento il suo computer, ndr) sono collegato con tutto il mondo. L’entusiasmo e i progetti, questo è il punto, sono una moneta che si può usare in tutti i posti del mondo. Io questa cosa la dico un po’ perché la penso, un po’ perché è importante dirla: il clima in un Paese si fa anche dicendole le cose. La dico pensando ai ragazzi, che sono il mio punto di riferimento perché è lì che c’è la vita: quando sei giovane rimani incinta con uno sguardo. Pensando alla loro fecondità mi convinco che, in un modo quasi kennediano, non possiamo aspettarci che il Paese faccia la differenza, ma siamo noi che dobbiamo farla. Non ci sono cazzi: questa è la vera resistenza per me. Ed è su questo che ci stiamo giocando le palle oggi: decidere di sopravvivere o, come diceva Italo Calvino, riconoscere le cose vitali e dare loro spazio».
Un compleanno riflessivo per l’Unità d’Italia.
«L’Unità d’Italia, intesa come capacità di armonizzare le differenze, c’era anche prima, c’è oggi, e noi non dobbiamo perderla se no siamo morti. Però posso dire una cosa? Il tricolore mi commuove, ma l’italiano in orbita mi commuove ancora di più, mi commuovono un casino i terreni requisiti alla criminalità su cui si fa qualcosa di bello. Un italiano che fa una bella figura nel mondo mi fa piangere di gioia. Le azioni, le persone, non le ideologie. Io, che ho sempre votato a sinistra, spero a questo punto di dovermi trovare nella situazione in cui la sinistra non c’è più, così devo votare qualcosa d’altro. Non la destra, ma un progetto, un sogno. La differenza tra noi e gli americani non è sostanziale, è formale: sta negli entusiasmi, nel credere di avere la forza di andare avanti».
Dice questa cosa e io penso che per lui, in questo momento, deve avere anche un significato più profondo e personale perché da due mesi Viola, sua mamma, non c’è più. Una caduta in casa, i danni cerebrali, mesi in ospedale, le fasi alterne di speranza e sconforto.
Com’è, senza?
«Da quando tre anni fa è morto Umberto, mio fratello, mia mamma è morta un po’ anche lei. Qualcosa è crollato e io mi sono ritrovato ad avere a che fare con una mamma che non era più una mamma, ma un essere ferito, che non riusciva nemmeno più a piangere. Ma adesso, averla persa davvero, mi dà un dolore fisico. Perché anche se non era più lei, c’era fisicamente. La andavo a trovare, l’abbracciavo – una cosa che non ho mai fatto da ragazzino – e lei odorava di mamma. Negli ultimi tempi non parlava più, non apriva nemmeno più gli occhi, ma c’era. E io adesso devo fare i conti col fatto che non c’è più ed è una cosa che non ho ancora elaborato. Adesso, per un caso fortunato, perché c’era quel posto libero quel giorno, lei e Umberto stanno in due tombe attaccate. Per fortuna c’è il mio babbo, che è come me e non molla mai, è una macchina da guerra. E la cosa più bella che è successa in questi ultimi tempi della sua vita è che lei e il babbo erano ritornati a essere una coppia. Per tanti anni sono stati il babbo e la mamma e basta, ma alla fine sono tornati a essere loro due. Quando la mamma è morta c’era solo lui lì con lei, come i due fidanzati che erano stati. Avrebbero festeggiato 50 anni di matrimonio qualche giorno dopo».