EMANUELA AUDISIO , la Repubblica 28/1/2011, 28 gennaio 2011
DALLO STATO PADRONE AL BUSINESS YAO MING
& C. VOGLIONO TUTTO - Lanterne rosse sul campo centrale. La Cina allunga le mani anche sul tennis. Non è la solita Cina, quella dei tuffi, del ping-pong, della ginnastica. Quella della manualità del corpo. Li Na è la prima asiatica ad arrivare in una finale di Grande Slam, in uno sport dominato da europee e americane. Ha muscoli, ironia, carattere. Si è subito lamentata del marito-allenatore, Shan Jang: «Russa molto e mi ha disturbata per tutta la notte». Il mondo è sorpreso da questa prima volta e teme l´avanzata, l´arrivo di una lunga marcia iniziata a Los Angeles ´84. Quell´anno la Cina, che fino allora non aveva mai vinto un oro olimpico, chiuse la sua partecipazione con 15 ori, otto argenti e nove bronzi. Il primo cinese a vincere ai Giochi, Xu Haifeng, nella pistola, era un venditore di fertilizzanti chimici. Allora non erano ammessi sponsor, guadagni, pubblicità. L´atleta cresceva nei centri federali, lo stato pagava vitto, alloggi, istruzione, e diventava proprietario delle vite dei campioni. Non c´era scambio, esperienze diverse, circuito all´estero. Zero professionismo. Qualsiasi introito andava suddiviso tra ministero dello sport, scuola di preparazione, centro federale. Gli atleti erano soldati che dovevano conquistare territori. E così il dragone cinese iniziava a fare paura anche in altri sport: nuoto, atletica, pattinaggio su ghiaccio, scherma. Soprattutto con le donne, dove il gap tra l´Asia e il resto del mondo era meno esteso. E quando i due metri e ventinove di Yao Ming fecero centro a Houston da Shangai sembrò lo sbarco del «made in China» nel posto più sacro d´America, il parquet dell´Nba. Primo cinese a sondare tra i professionisti del canestro e subito soprannominato «The Walking Great Wall», «la Grande Muraglia che cammina». Ma anche fenomeno commerciale: una dinastia Ming che doveva crescere e moltiplicarsi.
Ma senza stereotipi: la nuova Cina sportiva comunica, non è imbalsamata. Basta ricordare Pechino 2008. Chunxiu Zhou, bronzo nella maratona femminile, confessò che il suo nuovo taglio di capelli, un caschetto scalato, era stato studiato proprio per fare bella figura in tv all´arrivo sotto il caldo. E il bad boy, Lin Dan, 24 anni, oro nel badminton, dimostrò che non era vero che i campioni cinesi non avevano personalità. Lui era a metà tra Connors e McEnroe. Minacciava gli avversari con la racchetta, dava pugni al suo allenatore, giocava a carte con irriverenza davanti alla tomba di Mao. E i singhiozzi di Du Li, oro ad Atene nella carabina, solo quinta a Pechino, che piangeva disperata davanti alle telecamere, dimostravano che i cinesi non erano più imperturbabili davanti a successi e sconfitte. La Cina è salita a 100 medaglie grazie anche all´import di tecnica, all´aiuto di 15 ct stranieri. Tra gli altri: il francese Bauer per la scherma, lo spagnolo Giralt per la pallanuoto femminile, l´australiano Maher per il basket donne, il tedesco Ploch per canoa e kayak, e la giapponese Masayo Imura per il nuoto sincronizzato, prima coach del suo paese ad allenare una squadra cinese.
Novità anche sul fronte degli spot. Le nuove campagne sono molte aggressive, De Coubertin non esiste più, spazzato via anche il suo ricordo. Lo slogan olimpico: «Ci vuole una vita per arrivare sul podio e solo due gradini per salire» dimostra che l´avventura sportiva non ha nessun valore umano, se non è premiata dal primo posto. Via libera anche agli sponsor privati. Oggi un campione cinese può scegliere, autodeterminarsi, diventare un modello. Guo Jingjing, grande regina dei tuffi, ha fatto pubblicità per Red Earth, McDonald´s, Toshiba, Coca Cola. Nel duemila con il suo milione di euro è comparsa tra le celebrità nella rivista Forbes. E ora tocca a Li Na prendere a racchettate il mondo.