Giorgio Dell’Arti, La Stampa 29/1/2011, PAGINA 86, 29 gennaio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 69 - CAPATINA A MILANO
Non mi torna questo fatto che la gente si sveglia una mattina e decide di non fumare per far dispetto agli austriaci. Oppure, di punto in bianco, fa la rivoluzione a Palermo... Ha parlato di una rivoluzione a Palermo, vero? Sì, il 12 gennaio… Forse se l’inverno non fosse stato così rigido… Era il terzo anno di carestia, gli incettatori di grano (tra cui Cavour) guadagnavano alla grande… Ma, quanto al Lombardo-Veneto, era sul serio lo stato meglio governato d’Italia. Buone scuole, buoni ospedali, città ordinate e relativamente pulite, una giustizia efficiente. Tutto relativamente ai tempi, intendiamoci. Radetzky usciva senza scorta, salutava tutti e tutti lo salutavano, faceva l’elemosina ai mendicanti. Premi a chi metteva su qualche manifattura, «Milano e Como contano più di ottomila telai di seta e novantamila fusi di cotone; la sola Olona anima 424 ruote motrici» (Cattaneo). Milano era una città sorridente, allegra, festaiola, con una vita intellettuale ricca e piacevole. I salotti, la Scala. C’era una ragione se Massimo era scappato da Torino e, dopo l’apprendistato romano, s’era messo a fare il pittore proprio a Milano. La censura era forte, e parecchi - tra cui Tommaso Grossi e Carlo Porta - ne avevano patito la diffidenza. Ma spesso lasciava fare. Metternich permise che si svolgessero in territorio lombardo-veneto - e senza nessun problema - tre congressi degli scienziati, uno dei quali, nel ’44, proprio a Milano. E Massimo, quando si presentò col manoscritto del Niccolò de’ Lapi al padre Colonnetti, che doveva dargli il permesso di pubblicare, si sentì dire: «Signor cavaliere, il suo manoscritto è troppo bello perché io osassi toccarlo» . Cobden, che nel suo giro del ’47 era passato pure in Lombardia, glielo aveva anche detto: «Ma siete sicuri di voler diventare italiani? Perché non so se uno stato italiano sarebbe governato altrettanto bene…».
E allora? C’era la questione dei tedeschi… Erano degli occupanti, e degli occupanti tedeschi. Lettera a Metternich del governatore Bellegarde, anno 1816: «Non mi stancherò quindi di ripetere essere assolutamente necessario abbandonare del tutto l’idea di una futura benché lenta assimilazione di queste province da parte del corpo tedesco della monarchia, e con questa di abbandonare anche quel piano di completa fusione…». Altra lettera di Strassoldo, quattro anni dopo: «I lombardi non han potuto e non possono e non potranno mai abituarsi alle forme germaniche imposte all’amministrazione del loro paese; essi le aborrono…». Esiste, a prescindere da tutto, un problema tra noi e loro. Mi viene in mente una dichiarazione della Zalaffi, dopo l’oro olimpico a squadre del 1992: «L’importante non era vincere, ma vincere contro le tedesche». Una frase perfettamente risorgimentale.
Bah. Radetzky aveva fatto quattro figli con una stiratrice milanese che gli preparava gli gnocchi… Sentimenti ambivalenti, da scriverci un trattato… L’attore Giuseppe Moncalvo in una scena ordinava un risotto: «Dammel minga giald» , cioè «giallo». E dopo una pausa: «E nanca negher» , cioè «nero». Il giallo e il nero erano i colori degli austriaci. Tutte le volte lo arrestavano. E la mattina dopo lo liberavano, perché la sera potesse ripetere lo sketch. Questo era il sentimento ambivalente loro. Il sentimento ambivalente nostro si vede per esempio in Berchet, che, pieno di comprensione, si mette a raccontare le disgrazie di una donna ammogliata a un austriaco, «Ella è sola» , e intorno a lei una «gente cruciata e prigiona» la crocifigge: «Maledetta chi d’italo amplesso / il tedesco soldato beò» . Se ci pensa, anche Giusti, in Sant’Ambrogio: comincia con la «maramaglia» per cui prova «un senso di ribrezzo» e finisce con le lacrime agli occhi quando sente «un cantico tedesco, lento lento […]era preghiera, e mi parea lamento, / d’un suono grave, flebile, solenne, / tal, che sempre nell’ anima lo sento» . Il caso più clamoroso di questa ambivalenza è forse quello della ballerina austriaca Fanny Elssler. Giovanni Prati le aveva dedicato un carme che cominciava: «Maledetta la mima / e queste inique razze dementi che le versan l’oro / e con l’oro la gloria» e finiva: «Oh venti / carezzate le chiome alla fanciulla / che vi nuota nel grembo» . Fanny viveva a Milano e si considerava milanese. I milanesi la adoravano. I salotti milanesi erano impazziti per la sua storia col figlio di Napoleone, il cosiddetto Napoleone II, morto a 21 anni, le dame eran certe che lei l’avesse meravigliosamente consunto tra le lenzuola. Quella storia, unita alla sua grandezza di ballerina (specialmente nello stile terre-à-terre opposto a quello aérien della Taglioni), aveva indotto un inglese a pagare una fortuna per contemplarla nuda e poter esclamare: «Ho veduto a Sant’Elena la tomba del padre. Vedo adesso la tomba del figlio». Beh, il 6 febbraio 1848 i milanesi scoprirono improvvisamente che era austriaca e disertarono la Scala. In sala non c’erano più di dieci italiani. Gli altri erano rimasti a casa, mordendosi le mani.