MIRELLA SERRI, Tuttolibri-La Stampa 29/1/2011, pagina XI, 29 gennaio 2011
“I miei giorni felici e assurdi come Beckett” - «Gli uomini sono tutti sporcaccioni... poco attenti alla “sua” manutenzione
“I miei giorni felici e assurdi come Beckett” - «Gli uomini sono tutti sporcaccioni... poco attenti alla “sua” manutenzione...»: ma poi si ingarbuglia e si intruglia la timidissima sessuologa Merope Generosa che, a fianco di un ancor ricciuto e capelluto Fabio Fazio, dal palcoscenico dell’Ariston di San Remo di alcuni anni fa discettava dei vizi e delle virtù di un moraviano «lui». Ed eccola, ancora e sempre lei, l’orvietana Anna Marchesini colonna del fantasioso trio con Lopez e Solenghi, pronta a mettere in scena la parodia del cechoviano Giardino dei ciliegi e a portare in palcoscenico un crudele monologo di Samuel Beckett o di Tommaso Landolfi. Sulfurea e stralunata, comica e surreale ma anche realistica nei panni della signorina Carlo con gli occhialoni, di Merope con i capelli cotonati, della Sora Flora o della cameriera secca dei signori Montagné - tanto per ricordare alcuni dei suoi personaggi più famosi -, l’attrice da sempre mescola sacro e profano, teatro elitario e grandi numeri-tivù, oltre a insegnare all’Accademia d’arte drammatica. E lo fa senza soluzione di continuità: passando da Shakespeare a Molière, da Goldoni a Ionesco a Pippo Baudo e Lorella Cuccarini. Adesso la Marchesini applica il suo talento poliedrico pure al romanzo: è in uscita da Rizzoli Il terrazzino dei gerani timidi , racconto ricco di sfumature psicologiche, diario interiore di un’infanzia, un’educazione sentimentale che termina con la visione di velluti, marmi e specchi di un foyer sbirciato da una porta socchiusa. E’ il suo sogno di attrice coltivato fin da ragazzina? «L’ambizione l’ho avuta fin da quando ero alle elementari. Mio padre era un impiegato, mia madre una maestra ricca di verve intellettuale. Scriveva libri e compilò una versione dell’ Inferno in dialetto orvietano. Io ero molto studiosa e divoravo i classici, Dostojevskij, Proust, Virginia Woolf. Adoravo anche gli italiani, in particolare Vasco Pratolini e Italo Calvino. Vivevo a Orvieto, città bellissima che però non offriva molto, quanto a degli stimoli culturali. Quando sono approdata a Roma per fare l’esame all’Accademia, pensi, ero stata a teatro una sola volta. Il mio era proprio un sogno...». Subito promossa? «Macché. Ero ritrosa e impacciata. Avevo conseguito da poco una laurea in psicologia che mi rendeva consapevole di mille lacci mentali e dunque molto autocritica e trattenuta. Comunque non ci ho pensato due volte e mi sono presentata a via Quattro Fontane, dove c’era la vecchia sede dell’Accademia. Arrivata al portone non osavo entrare. Salivo e scendevo con l’ascensore e tutto mi piaceva, ero deliziata persino dall’odore dei pavimenti lucidati a cera». Alla fine? «Mi presento con il testo più sbagliato, i Dialoghi delle Carmelitane del cattolicissimo Georges Bernanos... Il severo Orazio Costa mi incalza “Canti, canti” e visto che non gorgheggio mi intima di arrampicarmi su un albero per lanciare delle mele alle altre suore... Impacciata dalla gonnona nera al polpaccio e da braccia e gambe troppo lunghe, cerco di inerpicarmi. “Sembra un giocatore di pallacanestro”, commenta acido Costa. Un disastro. Ma questa sconfitta, come mi è spesso accaduto, è foriera di una nuova consapevolezza. Mi sono intestardita. E ho riprovato». Un grande successo? «Bocciata per la seconda volta ma alla fine ce l’ho fatta». Bernanos sarà stato l’autore che ha più detestato. E il più amato? Pirandello? Nelle ultime pagine del suo romanzo la piccola protagonista riceve in dono «L’uomo dal fiore in bocca». Oppure è stato Manzoni di cui decretò il trionfo sul piccolo schermo con la parodia dei «Promessi sposi?». «Entrambi sono stati autori di culto per me. Lo scrittore del Fu Mattia Pascal ha teorizzato il sentimento del contrario per esprimere la comicità. La mia Merope è una sessuologa imbarazzata dal fatto di dover parlare di attributi genitali e dunque proprio il contrario di quello che dovrebbe essere. Però, per me, la comicità è qualcosa di molto soggettivo, uno sguardo speciale sulla realtà. Mi passi l’espressione: mettere in scena un personaggio è come fare la pipì, mi viene naturale. E il dono di osservazione c’è chi lo possiede e chi non ce l’ha». Un terzo occhio? «Lo condivido con Massimo Lopez che ho conosciuto mentre doppiavamo i cartoni animati, era uno scherzo continuo, eravamo anche un po’ pazzi. Con Massimo ci capiamo al volo, siamo animali della stessa razza. Ma anche le gaffes sul palcoscenico sono state inesauribile fonte di divertimento». Un assaggio? «Lo scrittore con cui paradossalmente è venuto fuori tutto il mio spirito più ilare è stato Aristofane con Le donne al parlamento . Nella messa in scena io e altre quattro colleghe dovevamo sbucare urlando in contemporanea da quattro porte laterali e poi pronunciare frasi che indicavano la nostra sottomissione ai maschi. E’ capitato che per errore una di noi uscisse prima del previsto e si trovasse al centro della scena gridando da sola... per quindici giorni non sono più riuscita a pronunciare la battuta successiva, mi veniva un fou rire incontenibile». Una vita di risate? «Leggendo e facendo teatro. Il mio genere preferito? Il vaudeville, a cominciare da Eugène Scribe che a Parigi allestisce al Théatre du Gymnase Le Diplomate . Tra gli scrittori con un posto di spicco nei miei scaffali ci sono Arthur Schnitzler, Cechov e Goldoni». A volte anche la comicità porta guai. «Se si riferisce allo sketch in cui Lopez faceva il presidente Ronald Reagan, Solenghi l’ayatollah Khomeini e io la sua mamma, la “Sora Khomeini”, noi non volevamo offendere nessuno. Però per protesta l’Iran-Air chiude i voli per l’Italia e a Teheran l’ambasciata italiana se la vede brutta. Per molto tempo ci siamo sentiti sotto tiro, poi è passato tutto. Avrei voluto comunque che la rivista Variety si occupasse del trio non solo per questo incidente internazionale. Gli Anni Novanta sono stati molto prolifici sia dal punto di vista della nostra affermazione che delle scoperte letterarie. Moltissime case editrici in quel decennio cominciano a dar risalto a tanta meravigliosa narrativa femminile, non solo la Woolf ma anche Ivy Compton-Burnett, Iris Murdoch, Vita Sackville-West, Edna O’Brien, Karen Blixen, Katherine Mansfield». L’autore che ha portato in teatro con più soddisfazione? «Beckett e i Giorni felici , un testo feroce, comico e drammatico al contempo, con Winnie cinquantenne bionda e grassottella che vive affondata nella sabbia fino alla vita e con Willie, il marito, che vegeta dietro di lei in un buco nel terreno, come un verme. Lo chiamano teatro dell’assurdo ma per me è vita reale. Appena l’ho letto sono stata folgorata». E per non smentire proprio il suo talento più grottesco indica, ridendo, un vaso di vetro verdolino nell’ampia sala dei prof dell’Accademia... «Lo vede? Sono tanto affezionata a questo posto e all’insegnamento che ho chiesto di riservarmelo, per le mie ceneri. Però poi mi viene qualche dubbio. Se l’Accademia trasloca? E se il vaso viene dimenticato da qualche parte? Magari in mezzo alla strada? O se si rompe? Per me sarebbe come essere bocciata una terza volta... lasciamo stare».