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 2011  gennaio 29 Sabato calendario

Napoli affonda tra primarie e “monnezza” - E’ prima di tutto una mortificazione. Una grandissima, desolante e forse immeritata mortificazione

Napoli affonda tra primarie e “monnezza” - E’ prima di tutto una mortificazione. Una grandissima, desolante e forse immeritata mortificazione. Perché una volta sono i cumuli di monnezza, esportati in mondovisione; un’altra volta le immagini dei passanti che scavalcano con noncuranza il corpo agonizzante dell’ultima vittima dei clan; oppure, come nel caso in questione, sono le primarie del Pd napoletano: che nate come rito rigeneratore, ora annaspano in un pantano di accuse da codice penale e di bizantinismi degni di un’altra epoca e di un’altra situazione. Non bastasse, infine, oggi i giornali stamperanno dell’ennesima raffica di arresti e di indagati più che eccellenti: dall’ex prefetto (Catenacci) all’ex governatore (Bassolino) all’ex vice di Bertolaso (Di Gennaro). Pare permettessero che i liquami di una città di milioni di abitanti venissero scaricati direttamente a mare: tanto, con tutti i problemi che ci sono, chi se ne frega del Golfo, di Capri, del Vesuvio e del solito mandolino. Così, la gente non sa più cosa pensare: e dunque, forse, ha smesso di pensare. Si consola con Hamsik, Cavani e Lavezzi: l’unica cosa - la squadra - che ancora non abbia tradito la città. «Non facciamo paragoni, per carità, né con il laurismo e nemmeno con l’epoca democristiana: ma questo è forse il momento peggiore che abbia mai vissuto la città - dice Biagio De Giovanni, filosofo, un passato nel Pci, e critico pungente dello stato delle cose -. Allora c’erano i palazzinari, certo, la corruzione e lo sviluppo distorto della città. Se si può dire, però, era vita: marcia, ma vita. Oggi è la paralisi, il silenzio lugubre, l’assoluta stagnazione. Napoli è allo stremo, ma nessuno nemmeno più lo dice». In una città così - disoccupati a centinaia di migliaia, un tessuto sociale lacerato e bande di piccoli delinquenti che scorazzano qua e là - in una città così, dicevamo, il Partito democratico ha tenuto domenica scorsa le sue primarie. Come è finita, anche se non è finita, lo si sa. E secondo molti lo si poteva sapere già da prima: «Le primarie fatte così, in una città così, andrebbero un po’ meglio regolate - annota Francesco Casavola, presidente emerito, attento a quel che accade e impegnatosi in queste indefinibili primarie -. Occorreva trovare il modo di evitare che ai nostri militanti si aggiungesse certa mescolanza spuria, che ha interesse a mettere in crisi il meccanismo e nei guai, dunque, il Pd». E infatti il meccanismo è andato in crisi, per dirla con cortesia. I sostenitori di Umberto Ranieri hanno accusato il vincitore di intrallazzi ai seggi, di voti comprati, e sibilato perfino di incursioni camorriste; i sostenitori di Andrea Cozzolino, il vincitore, replicano indignati, e indignato è soprattutto lui - Cozzolino, uomo vicino ad Antonio Bassolino - che dice «io per ora vado avanti. Posso anche fare il passo indietro che chiede Bersani: ma prima devono dire che sono una persona perbene e poi che le primarie le ho vinte io, regolarmente». Chi dovrebbe dire questo, si presume, è il collegio dei garanti: che però ha sospeso i suoi lavori e non sa più cosa fare. Insomma, senza troppi giri di parole: è tutto fermo, nessuno sa come finirà e si attende l’arrivo del «commissario» nominato da Bersani, che sta forse chiedendosi perché è proprio a lui che doveva capitare. Intanto in quel che resta del dibattito pubblico, va sviluppandosi una discussione appassionante: non sarà mica che il Pd, a Napoli, ha imboccato - e magari già da tempo - la via del «laurismo di sinistra»? Dibattito interessante, a proposito di bizantinismi: come se ci fosse un modo di destra e uno di sinistra di regalare pacchi di pasta, comprare voti e dare una scarpa prima e l’altra solo a vittoria certa. Più interessante - e ugualmente mortificante - è invece la questione dei magistrati. Giustamente, visto che siamo a Napoli, non può essere che un magistrato l’asso nella manica e il candidato sindaco capace di metter d’accordo le diverse correnti del Pd. Veltroni ha proposto Cantone. Qualcuno altro ha sussurrato di Paolo Mancuso. Di Pietro ha spinto avanti De Magistris. «Ma ci rendiamo conto? Stiamo facendo di tutto per dar ragione a Berlusconi quando dice che il Pd è il partito dei giudici», ha tuonato Massimo Cacciari. «Candidare un magistrato vorrebbe dire quasi commissariare una libera amministrazione», aggiunge Casavola. «Ricorrere a un magistrato è politicamente folle, e per la classe politica anche mortificante. E’ come dire: noi non ce la facciamo. Ma se non ce la fanno, lasciassero spazio a nuovi gruppi dirigenti, invece che chiamare il magistrato», concorda De Giovanni, sconsolato. Insomma: un professore dove si presuma la città sia più colta; un conduttore tv dove la gara è aperta e manca poco; e giustamente un magistrato - in assenza di poliziotti sufficientemente noti - a Napoli, così ci pensa lui a tenere a bada la città. Uno dei più prevedibili effetti collaterali dell’impantanamento delle primarie napoletane è stato - ovviamente - il solito attacco allo strumento stesso delle primarie. Non che sia sbagliato discuterne, naturalmente: è sorprendente, però, come nessuno accenni all’ipotesi che il problema potrebbero non essere le primarie in quanto tali ma lo stato del tessuto civile del Mezzogiorno e, più in particolare, del Partito democratico al sud. Una rimozione che talvolta fa a pugni con la cronaca e con la realtà: come se la condizione del pd siciliano - per metà in rivolta dopo i patti con Lombardo - non dicesse nulla; e come se nulla avessero segnalato le inchieste che hanno scosso i democratici in Puglia e in Calabria, per non dire dell’Abruzzo. Oggi è toccato a Napoli, insomma: ma chi può esser certo che a Palermo a Reggio oppure a Taranto sarebbe andata poi così brillantemente? Però intanto è Napoli ad essere di nuovo sotto i riflettori. E pensare che lo fu - e non cent’anni fa - per tutt’altro aspetto: per il suo irrefrenabile «rinascimento», per l’esplodere di ognuna delle sue pulsanti vene culturali, dalla musica al cinema, fino al teatro. Quella luce quasi non brilla più. E nei momenti di maggior sconforto - che vuol dire in momenti come questi - viene da chiedersi se Napoli non stia finendo come finisce una stella: che continua ad irradiar luce anche se si è spenta già.