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 2011  gennaio 28 Venerdì calendario

Logue, il mago che salvò la monarchia - No, che lo chiamasse «Bertie» è impossibile. Un leale suddito australiano nato nel Diciannovesimo secolo non si sarebbe mai rivolto al Duca di York, men che meno al proprio sovrano, col nome da nursery usato da Lionel Logue per il suo paziente nel film di Tom Hooper

Logue, il mago che salvò la monarchia - No, che lo chiamasse «Bertie» è impossibile. Un leale suddito australiano nato nel Diciannovesimo secolo non si sarebbe mai rivolto al Duca di York, men che meno al proprio sovrano, col nome da nursery usato da Lionel Logue per il suo paziente nel film di Tom Hooper. Ma quanto c’è di storicamente attendibile nel Discorso del re ? E, soprattutto, chi era veramente Lionel Logue? La testimonianza più vivida arriva da un vecchio signore di Chichester, Richard Oerton. Uno degli ultimi ancora in circolazione a essere stato curato da Logue. Anzi, a «non» esserne stato curato: la balbuzie non gli è mai passata. Eppure ricorda grato la prima volta che, a 11 anni, nel 1947, fu accompagnato in quello studio londinese al 146 di Harley Street. «Logue aveva i capelli bianchi, i lineamenti delicati, la voce calda, lenta e amichevole», ricorda Oerton sul sito della Società britannica per la balbuzie. Gentile, ma mica scemo: «Una volta mio padre si sbagliò per difetto nel compilargli l’assegno e lui glielo fece subito notare». La sua tecnica, com’è mostrato nel film, si basava in gran parte sulla respirazione: invitava i pazienti a usare il diaframma, non soltanto per pure ragioni meccaniche ma soprattutto per rilassarsi. Unico riferimento a Giorgio VI, in cinque anni di relazione terapeutica con Oerton: «A papà stava piuttosto antipatico il Duca di Windsor, quello che abdicò, e una volta disse a Logue: Siamo stati fortunati, vero, che le cose siano andate come sono andate? Lui annuì, sorridendo». Come è accennato nel film, Logue era convinto che la balbuzie fosse sempre di origine traumatica, ma nell’esperienza di Oerton «non mi sottopose mai a indagini di tipo psicologico». Può darsi che con Bertie l’abbia fatto, ed è allora che sarebbero venuti fuori tutti quei bei conflitti edipici e di rivalsa con suo fratello David su cui Colin Firth ha basato una prova recitativa sensibile e trattenuta. Assolutamente certo, invece, che usasse gli scioglilingua (ne volete uno dei suoi? «Benjamin Bramble Blimber borrowed the baker’s birchen broom to brush the blinding cobwebs from his brain»: sì, la lettera B è una bestia nera da ammaestrare). È anche vero che incitava i pazienti adulti a dire le parolacce. Aveva capito che la balbuzie è spesso legata all’aggressività repressa. Nato ad Adelaide nel 1880 e morto a Londra nel 1953, un anno dopo il re che aveva aiutato, «l’uomo che salvò la monarchia britannica», come s’intitola il libro scritto da suo nipote Mark col giornalista Peter Conradi, non si laureò mai in Medicina, ma non millantò mai di essere dottore. Figlio di un contabile nella distilleria di famiglia (e non di un birraio, come si afferma nel film), è un attore dilettante intossicato del blank verse scespiriano, che a furia di andare a scuola di eloquenza si mette a teorizzare sulla materia. Ma visto che ha un talento speciale, dopo la fine della Grande Guerra scopre di poter dare una mano ai reduci vittime dello shock traumatico e dei gas. Seguace della Christian Science, ossessionato dalla volontà di guarire il prossimo, si trasferisce a Perth e poi a Londra, dove stabilisce uno studio nella «via dei dottori». Il Duca di York, attestano le agende degli appuntamenti di Logue, frequentò Harley Street quasi quotidianamente tra il 20 ottobre 1926 e il 22 dicembre del 1927, per un totale di 82 sedute. Sua moglie Elisabetta, conferma il libro del nipote di Logue, «lo accompagnava molto spesso e gli era sempre accanto quando doveva preparare un discorso radiofonico, aiutandolo a eliminare le consonanti più difficili». Grazie al training con Logue, Bertie riesce a tenere in modo soddisfacente, nel ‘27, il discorso per l’apertura del parlamento australiano a Canberra: è il segnale della (quasi) guarigione. Dall’incoronazione nell’Abbazia di Westminster all’appello per l’entrata in guerra, Leon lo conforterà in tutti i momenti cruciali con il suo mantra: «E adesso, sir, la prenda con tranquillità». Ma quel che rende Logue particolarmente simpatico è il fatto che non approfittò mai di una relazione tanto privilegiata a Corte. È vero, fu insignito di un titolo, quello di Cavaliere dell’Ordine Reale di Vittoria che, com’è spiegato alla fine del film, spetta a chi ha intrattenuto rapporti di amicizia con un membro della famiglia reale. Ma da lui non arrivarono né un libro né un’intervista. Neppure un saggio sul proprio metodo terapeutico, il che rende aleatoria qualsiasi ricostruzione del suo lavoro clinico. Restano i frammenti di Oerton. E di un altro paziente, guarito a tre anni con una sola seduta. «Di lui ricordo una sola frase: salta qui, Geoffrey! Non ho più balbettato in vita mia».