ARRIGO LEVI, La Stampa 28/1/2011, pagina 1, 28 gennaio 2011
Il dovere di festeggiare “il nostro Stato” - In cuor mio, nel momento in cui festeggio i 150 anni dell’Unità d’Italia, mi ritrovo a pensare che io festeggio soprattutto la Repubblica
Il dovere di festeggiare “il nostro Stato” - In cuor mio, nel momento in cui festeggio i 150 anni dell’Unità d’Italia, mi ritrovo a pensare che io festeggio soprattutto la Repubblica. Ho ripensato molto a Carlo Casalegno, in questi giorni, e ho di nuovo pensato che per lui, come per me, l’Italia, la nostra Italia, si identificava con quello che definiva «il nostro Stato», per cui ha dato coscientemente la vita; ossia con la Repubblica. So bene quanto la personalità di Carlo fosse impregnata, per istinto torinese e per studi, di storia risorgimentale e sabauda. Ma per lui, come per molti di noi della sua stessa generazione, questa storia conduceva, attraverso l’antifascismo e la Resistenza, all’Italia repubblicana. Il fascismo ci appariva come una deviazione perversa della nostra storia, il cui componimento e naturale punto d’arrivo era «il nostro Stato». Del resto, se io sono italiano è grazie alla nascita della Repubblica. Avesse vinto l’orrenda alleanza nazi-fascista, sarei diventato forse argentino, forse nord-americano; non israeliano (come fui un po’ tentato di fare dopo averci combattuto nel 1948), perché in quel caso non sarebbe mai nato uno Stato d’Israele, in Palestina si sarebbe chiusa la tenaglia delle armate fasciste e naziste, in arrivo da Nord e da Sud, e della «terra d’Israele» e dei suoi abitanti non sarebbe rimasta traccia. Non ho dimenticato che ci fu un momento, quando per antiperonismo ero nel carcere di Villa Devoto (non fu grande gloria: in una giornata ci finimmo dentro in 5 mila sui 18 mila studenti universitari della Buenos Aires d’allora), in cui io mi sentii, sicuramente, argentino. Ho sempre saputo che la nazionalità, ossia il senso di appartenenza a una particolare nazione, ha radici profonde. Ma so anche, per esperienza personale, che la storia può estirparle, e che la vita può far nascere nuove radici, formare una nuova identità complessa. Non contraddittoria. Anzi, più ricca. La mia Italia è democratica e repubblicana. Certo (così mi era stato insegnato in famiglia) nasce risorgimentale. Per l’Italia unita, che li liberò dai ghetti e li fece diventare compiutamente italiani (lo divennero, allo stesso tempo, napoletani e toscani, veneti e lombardi), gli ebrei italiani, con radici più che bimillenarie in questo Paese avrebbero dato la vita. Nel 1945, come mio padre partirono volontari in tanti, con la sensazione di adempiere un dovere, forse di pagare un debito. Ma col fascismo gli italiani, e primo fra tutti il re, tradirono se stessi. Molto prima delle leggi razziali del 1938, l’Italia risorgimentale, liberale, democratica, aveva cessato di esistere. Tornò in vita con «il nostro Stato». Per questo, oggi come nel 1961, abbiamo il diritto e il dovere di festeggiare l’Unità d’Italia. Festeggiamo una storia antica, festeggiamo una realtà che noi abbiamo ricostruito. Ricostruito e anche difeso contro un’altra esplosione di follia italiana, contro quei terroristi che Enrico Berlinguer definì (in un discorso a Modena e in una lettera del 23 settembre 1977 indirizzatami come direttore della «Stampa») dei «nuovi fascisti» («non sono definibili - mi scrisse - con alcun altro termine»). Solo dei «nuovi fascisti», comunque si autodefinissero, quale che fosse lo Stato totalitario che immaginavano di costruire, potevano tentare di distruggere «il nostro Stato», e immaginare di riuscire a farlo. Ignorando quello che ci era più caro, che era più caro agli italiani, dall’ultimo poliziotto a Paolo VI, anche della vita. Un sentimento più forte di ogni ricatto, come nelle tragiche giornate del rapimento di Moro. Ci eravamo detti: non passeranno, e non passarono. L’incubo si sciolse, più rapidamente di quanto sognassimo. Pagammo la ritrovata libertà con molti morti: 364, fra il 19 novembre 1969 e il 2 marzo 2003. Oggi possiamo festeggiare, anche se con minore spensieratezza, come nel 1961. Ricordo bene la Torino di quell’anno. La raggiunsi, durante una vacanza dalla mia sede di lavoro quale corrispondente da Mosca, con un viaggio di tre giorni in bicicletta (non da Mosca, per carità: dall’amata campagna modenese, dove rinvenni una vecchia bici). Trovai una città splendida per i nuovi edifici, e festante. Non immaginavo che sarebbe diventata, dopo pochi anni, e tale sarebbe rimasta, la mia città. Negli anni di piombo la «Stampa» fu Torino, Torino si riconobbe nella «Stampa». Il senso di appartenenza può essere forte, indistruttibile anche se ha radici brevi. Così, l’Italia che festeggiamo è ancora repubblicana, antifascista, impegnativamente democratica. Un’Italia non soltanto genialmente creativa, come è sempre stata. Un’Italia seria e che lavora, non importa se governata bene o male, che si identifica con i principi e i poteri creati dalla sua Costituzione, nata, non saprei dirlo altrimenti, dalla Resistenza, miracolosamente creata in tempo brevissimo da forze politiche diverse, unite dall’antifascismo. Mi pare che chi non prova quei sentimenti non viva questo anniversario come lo vive chi li ha condivisi con famigliari e con compagni di lavoro, cari come fratelli, che per l’Italia erano stati pronti a dare la vita. Ricordo quando i cronisti mi chiesero l’onore di firmare i loro articoli (fino ad allora erano, per tradizione, senza firma, come i fondi del direttore). E sì che scrivevano ogni giorno sui fatti di terrorismo. Fra noi ci fu chi pagò con la vita la sua fedeltà al «nostro Stato». È grazie anche a lui se noi, oggi, festeggiamo.