Pierluigi Panza, Corriere della Sera 28/01/2011, 28 gennaio 2011
«ULTIMA CENA»: L’ISTANTE CHE HA STREGATO GLI ARTISTI
Uno dei palinsesti sui quali gli artisti si sono da sempre messi alla prova è stata la raffigurazione della scena evangelica dell’ultima cena di Cristo. La trasmissione dell’istante in cui Gesù offre il proprio corpo come Eucarestia venne raffigurata già molte volte nella pittura tardo-medioevale murale (da Giotto a Signorelli) o su tavola (Duccio di Buoninsegna) a scopo devozionale. Poi, nel Rinascimento, trovò nell’affresco del refettorio delle Grazie a Milano, (1494-98) il suo insuperabile modello estetico, poiché Leonardo, meglio di chiunque altro, seppe rappresentare nei volti dei dodici apostoli le espressioni della loro anima sconvolta o stupefatta oppure turbata e irata all’annuncio del tradimento. L’affresco leonardesco, per quanto mal condotto dal punto di vista tecnico (tanto che già a metà Cinquecento era quasi perduto, e Vasari parlò di «grande macchia bianca» ), divenne il riferimento fondativo di un canone e l’imprescindibile elemento di confronto per gli artisti successivi. Che conobbero quest’opera soprattutto attraverso un gran numero di riproduzioni, effettuate dagli allievi di Leonardo e da altri artisti, ora fedeli ora con piccole e grandi varianti. Dopo Leonardo, raramente ricomparvero soluzioni precedentemente adottate per raffigurare la cena, come quella di Andrea del Castagno (1450) che pone Cristo sul lato opposto del tavolo rispetto ai dodici o come quelle con i dodici seduti a terra. La fissazione di un canone rese imprescindibile sia la disposizione dei dodici con Cristo al centro, sia la presenza di elementi iconologici (già in parte noti) che consentivano all’osservatore di riconoscere i singoli apostoli. Giovanni, «il discepolo più amato» , risulterà sempre effemminato e con il capo reclino, spesso sulla spalla di Cristo— da qui l’ardita interpretazione di Dan Brown di identificarlo con la Maddalena -; Giuda, il traditore, sarà sempre con la bisaccia dei soldi mentre Pietro sempre con un coltello in mano (il riferimento è al successivo episodio del taglio dell’orecchio a un soldato nell’orto degli ulivi). Come enfatizza la successiva copia del Giampietrino del 1520 (ma anche quella di Cesare da Sesto e altre), anche il linguaggio dei gesti viene fissato da Leonardo per raccontare gli stati d’animo. Osservando il suo Cenacolo partendo da sinistra, il primo gruppo è formato da tre apostoli in piedi: Bartolomeo, con le mani appoggiate che sembra non credere a quanto ha udito, Giacomo minore, che tocca la spalla di Pietro, e Andrea che solleva le mani per allontanare da sé i sospetti. Del secondo gruppo abbiamo già detto; il terzo gruppo, alla sinistra di Cristo, mostra Giacomo che allontana da sé i sospetti allargando le braccia, Tommaso (secondo alcuni realizzato per ultimo, quasi aggiunto per dimenticanza) che solleva il dito per mettere in dubbio le parole degli altri e Filippo, che si batte il petto in segno di contrizione. Gli ultimi tre alla destra sono Matteo, che volge il viso all’indietro verso Simone e Taddeo, che manifestano il loro reciproco stupore. Anche la scelta di dipingere la cena sul lato breve di un refettorio, con un fondale prospettico che dava profondità allo spazio reale raddoppiandolo, divenne ricorrente negli affreschi successivi: su molti lati corti dei refettori vennero raffigurate cene, o quella del Cristo o altre, come, ad esempio, le Nozze di Cana del Veronese nel refettorio palladiano dell’Isola di San Giorgio a Venezia. Seguirono il canone una moltitudine di artisti, ma alcuni tra i più arditi provarono a discostarsi. Tintoretto, ad esempio, nel 1592-4 dipinse una cena su tela (365 x 568 cm., sacrestia della Chiesa di San Giorgio a Venezia) in diagonale, ambientata in una taverna veneziana, con in primo piano i servitori: è la luce, in questo caso, e non la prospettiva, a indicare il centro dell’evento. Ciò che rispetta del canone sono solo i raggruppamenti a tre degli apostoli. A proposito di questa tela, lo storico d’arte Pallucchini nel 1937 scrisse: «Due luci squarciano l’enorme e disadorna stanza, dove il Cristo è intento a dare la Comunione agli apostoli: una luce reale si diffonde dalla lampada colpendo le figure di schiena, mentre un fulgore fantastico divampa attorno alla testa del Cristo e quasi sembra che gli angeli che piombano dal cielo siano della stessa sostanza luminosa. La realtà quotidiana, che ha accenti di sapore quasi popolaresco, viene trasfigurata dal contrasto di questa doppia luce in senso quasi espressionistico» . In area veneta, Jacopo Bassano dipinge un’Ultima cena (1542, Galleria Borghese), dove Giovanni è addirittura un fanciullino addormentato davanti a Cristo e dove, oltre a quello delle mani, si usa anche il linguaggio dei piedi che spuntano da sotto il tavolo. Tiziano, nel 1542-44 ne ambienta una in verticale tra monumenti dell’antichità egizia e romana che spuntano dal finestrone mentre Tiepolo, nel 1745-50 riprende dal francese Poussin il tema dello sfondo realizzato con una tenda che chiude la scena. Ritornando a Milano, a Brera ci sono altre tre cene: una è quella del Crespi, una del magniloquente Veronese e l’altra, introspettiva, di Rubens. Per questo suo dipinto, Veronese finì davanti all’Inquisizione con l’accusa di aver dipinto una cena per la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo (5,55 x 12,80 metri) con figure non presenti nel racconto evangelico. Ci sono infatti pappagalli, cani (elemento non nuovo), un servo a cui «esce il sangue dal naso» e «buffoni, imbriachi, Thodeschi, nani et simili scurrilità» . Lui si difese affermando che «se nel quadro li avanza spacio, io l’adorno di figure secondo le invenzioni» ; e ancora dicendo che «nui pittori si pigliamo la licentia che si pigliano i poeti e i matti» . Di segno opposto è la cena intensamente religiosa di Pieter Paul Rubens (olio su tavola 304 x 206 cm., scomparto centrale di un trittico) realizzata nel 1632, dove tutti sono stretti attorno al Salvatore che affida se stesso a Dio con lo sguardo. Dalla fine dell’Ottocento, e poi nel Novecento, l’opera stessa di Leonardo diventa un palinsesto, sul quale ciascuno taglia e cuce le propie poetiche. L’Ultima Cena di Salvador Dalì è un dipinto (olio su tela 167 × 268 cm.) realizzato nel 1955 in cui il catalano scompagina l’iconografia tradizionale, e incomincia la fortunata «poetica» delle provocazioni: apostoli come monaci a testa china, il petto di Cristo nudo che ascende come in sogno al cielo… Andy Warhol, invece, lavora sulla duplicazione, tecnica tipica del pop: fotografa Leonardo e lo tratta con dei ritagli di colore infinite volte. Con Dalì, Warhol e altri artisti delle avanguardie del Novecento, Leonardo viene preso a pretesto per riflettere sul significato e sulle potenzialità dell’opera d’arte. Nell’arte contemporanea, il soggetto diventa ricorrente per scioccanti dissacrazioni e l’inflazione di rivisitazioni più o meno blasfeme dell’ultima cena, spesso quella di Leonardo, diventa un genere: modelle nude, donne, gay, artisti e persino il nulla al posto degli apostoli. Si è visto di tutto e di più. Nel 1972 un collage di Mary Beth Edelson intitolato Some Living American Women Artists, che dà la stura al rapporto arte-femminismo, raffigura 80 donne con, al posto di Gesù, la pittrice degli anni Venti Georgia O’Keeffe. L’artista Renée Cox realizza poi qualcosa di simile, ponendosi nuda al posto di Gesù al centro del Cenacolo. Donne al posto degli apostoli sono presenti anche nella Cena del tedesco Andreas Sachsenmaier. Questa sostituzione si diffonderà dall’arte alla pubblicità: le modelle di Neidermair Brigitte in posa come i dodici nell’Ultima Cena leonardesca sono usate per la campagna pubblicitaria M+F Girbaud. David Lachapelle realizzò invece una commovente Ultima Cena hippy-gay; simile a questa è quella di Bettina Rheims e Serge Bramley, con hippy anni Settanta che suonano e fumano intorno a Cristo. La decostruzione del modello leonardesco a fini dissacratori diventa, a questo punto, un tropo retorico, che finisce per creare un superscandalo nel 2008 nella retrospettiva dedicata all’austriaco Alfred Hrdlicka quando, nell’arcivescovado di Vienna finisce la sua Ultima cena di Leonardo restaurata da Pierpaolo Pasolini: la scena, invece di un pasto consumato tra l’annuncio, è un’orgia omosessuale, con scene di sesso esplicite. Anche Vanessa Beecroft non si sottrae al gusto della dissacrazione. L’artista Leone d’oro alla Biennale del ’ 77, il 16 marzo del 2009 realizza al Pac di Milano una performance nella quale degli immigranti africani stanno seduti a una tavola trasparente di dodici metri vestiti con smoking fuori misura, strappati o impolverati. Sono i nuovi «apostoli» e mangiano carne e pane nero senza piatti e posate.
Pierluigi Panza