F. Fub., Corriere della Sera 28/01/2011, 28 gennaio 2011
LA RIVOLTA ANTI-REGOLE DEI BANCHIERI: «TROPPI VINCOLI, COSI’ LA CRISI NON FINISCE» —
Si sono chiusi dentro in pochi, ma le loro attività valgono oltre cinque volte la taglia dell’economia italiana. Bank of America, Barclays, Credit Suisse, Jp Morgan Chase, Ubs e altre banche hanno tutte mandato i loro leader supremi a una breve e intensa riunione, nel centro congressi di Davos, dedicata a cinque punti segnati su una lavagna. L’agenzia Bloomberg ha spiato la lista da una finestra e il risultato sarebbe stato anche scontato, se solo il peggiore crash degli ultimi 70 anni non fosse (forse) appena alle nostre spalle. I principali banchieri del mondo hanno parlato delle conseguenze «non volute» delle nuove regole che li riguardano, di come far soldi in un mondo di bassi tassi d’interesse, della minaccia dei debiti sovrani e soprattutto di come reagire alla voglia dei politici di «intervenire» . Ne avevano appena avuto un assaggio, perché Nicolas Sarkozy poco prima si era rivolto a loro nella sala centrale del Forum. «So che come francese risulto sospetto— aveva detto l’inquilino dell’Eliseo —. Ma se troppe regole uccidono il mercato, anche l’assenza di regole può farlo. A sentire voi, solo pochi anni fa tutto andava a meraviglia, poi invece il castello di carte è crollato» . A quel punto Jamie Dimon, capo di Jp Morgan: si è alzato e ha rinfacciato apertamente a Sarkozy che il problema sarebbe semmai nell’eccesso di vincoli sul sistema finanziario: «Con le regole giuste ci metteremo poco a uscire dalla crisi, ma quel che troppo è troppo» . Anche Gary Cohn, presidente di Goldman Sachs, sostiene le stesse posizioni. A loro ieri ha risposto Barney Frank, padre della riforma finanziaria al Congresso Usa: «Non è vero che ci sono troppe regole, semplicemente quelle di prima erano del tutto inesistenti» . Ma quest’anno tocca a Dimon e non a Barney Frank incarnare lo spirito di Davos, mentre nel resto del mondo 30 milioni di persone restano senza lavoro dopo la crisi finanziaria. Per il capo di Jp Morgan e per il popolo di manager che si ritrova sulle nevi svizzere, questa storia del 2008 è acqua passata: un episodio da ridimensionare, se non proprio da rimuovere. Lo S&P500, principale listino di New York, è sopra ai livelli della vigilia del crollo di Lehman. E le imprese guadagnano bene. «Mi avessero detto due anni fa che i miei ricavi di fine 2010 avrebbero raggiunto i massimi del 2007, non ci avrei creduto: invece è successo» , ha detto l’altro giorno Martin Sorrell, Ceo del colosso della pubblicità WPP. Ai banchieri in particolare, il ritorno agli utili e a un patrimonio più solido sembra ispirare atteggiamenti diffusi fino al 2007. Qui a Davos tre anni fa Dick Fuld di Lehman era trattato— e si atteggiava — da eroe moderno. Oggi nel ruolo della star si è accomodato proprio Dimon, il greco-americano che tre anni fa guidò saldamente Jp Morgan lontano dagli scogli. Oggi per lui è arrivato il momento del contrattacco. «Se Lehman fosse fallita anche solo nel 2005, non sarebbe successo nulla — ha proclamato ieri —. Prendersela con i banchieri è disgustoso, non siamo tutti uguali. Noi, quando il governo ce lo ha chiesto, abbiamo salvato Bear Sterns» . Dimon non ha ricordato che l’operazione era garantita dalla Federal Reserve, in modo che tutte le perdite sarebbero spettate al contribuente Usa e tutti gli utili a Jp Morgan. Ma ora, per effetto di quei salvataggi, i grandi istituti sono ancora più grandi di due anni fa e nessuno può più lasciarli fallire, qualunque rischio prendano per guadagnare di più. Bank of America, Jp Morgan e Citigroup hanno il 30%degli attivi di tutto il sistema bancario americano. «C’è meno concentrazione da noi che in Francia o in Italia» , ha ribattuto Dimon. Senza peraltro convincere tutti: «Questi banchieri non si rendono conto che stanno guadagnando solo perché li abbiamo salvati — è stata la risposta del premio Nobel Joseph Stiglitz —. Ecco perché non assolvono ancora alla loro funzione sociale, quella di distribuire credito alle imprese» .
F. Fub.