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 2011  gennaio 27 Giovedì calendario

KAPUSCINSKI IN LOTTA «CONTRO IL SILENZIO»

« I n Europa la gente muo­re durante le guerre: in guerra la morte si porta via milioni di vite, ma è la messe di una sola stagione. Da noi la vi­ta umana non conta un acciden­te. Con la povertà e con la fame che ci ritroviamo, il confine tra la vita e la morte diventa labile».

Parole di Oscar Prudencio, retto­re dell’Università San Andrés, La Paz, Bolivia. Con questa visione prospettica – il Sud del mondo che dà chiavi di lettura al Nord, attraverso voci poco note, ma au­torevoli di un microcosmo che disegna i contorni del macroco­smo in cui è immerso – arrivano per la prima volta in Italia dieci reportage di Ryszard Kapuscin­ski, scomparso tre anni fa a Var­savia prima di compiere 75 anni.

Pubblicato nel ’75 e divenuto su­bito un successo, Cristo con il fu­cile in spalla (192 pagine, 15 eu­ro, in uscita per i tipi di Feltrinel­li) dà voce a giovani rivoluzionari che a cavallo tra gli anni 60 e 70 hanno tentato di opporsi con la lotta armata a conclamate ditta­ture. Il titolo del volume richia­ma la figura del prete colombia­no Camilo Torres Restrepo, pre­cursore della teologia della libe­razione e docente di sociologia, che a 35 anni – dopo 10 di sacerdozio – scel­se di imbracciare le ar­mi per entrare nell’E­sercito di liberazione nazionale, sposando la causa degli indios; sarà ucciso due anni dopo, durante un attacco dei guerriglieri contro l’e­sercito regolare. Kapu­scinski non giustifica l’uso della violenza in risposta alla strategia del terrore messa in at­to da chi ha in mano il potere, ma denuncia l’oppressio­ne, a tutte le latitudini, e cerca di far emergere le motivazioni dei ribelli, come la passione per la dignità e le radici etiche. In Sal­vador, ad esempio, Victoriano Gómez «organizzava imboscate contro le pattuglie della Guardia Rural, un esercito privato al ser­vizio dei latifondisti, reclutato tra i peggiori criminali. Il terrore di tutti i villaggi». La polizia lo cat­tura una notte in cui era andato a trovare la madre; la sua esecuzio­ne «esemplare» venne trasmessa in tv, «perché l’intera nazione ve­desse. Vedesse e riflettesse». Toc­cante il passaggio di una lettera scritta dal boliviano comandante di reparto Nestor Paz alla moglie María Cecilia: «Nessuna morte è inutile, se è stata preceduta da u­na vita dedita agli altri, una vita in cui abbiamo cercato significati e valori». Positivo il giudizio su Che Guevara e Salvador Allende: «Sia una morte che l’altra sono u­na dichiarazione, una sfida. E­sprimono il desiderio di testimo­niare pubblicamente la giustezza delle proprie convinzioni e la di­sponibilità, al di là di ogni esita­zione, a pagare per essa il prezzo più alto». Intenso, d’altro canto, il racconto del sequestro e dell’o­micidio «come strumento di po­tere » da parte dei ribelli del conte Karl von Spreti, ambasciatore te­desco in Guatemala. Non si tratta di un’apologia della rivoluzione, verso la quale si avverte comun­que un’empatia. Anzitutto l’auto­re riferisce di efferati omicidi di massa caduti nell’oblio. Non ri­cordarli significa per lui rendere vano il sacrificio di tanti inno­centi: «Nel 1968, in Guatemala sono cadute vittime del fascismo oltre tremila persone. Una parte è morta sotto tortura nei campi di concentramento (...). Le altre sono state assassinate nelle loro case, nelle vie, nei fossi lungo le strade». E comincia un elenco di contadini, ingegneri, sindacalisti, poeti, operai chiamati per nome e cognome, quando è stato pos­sibile identificarli. Fucilazioni, massacri, desaparecidos e fe­dayin in una storia e in una geo­grafia racconta­ta dal basso, che non perde uno sguardo d’insieme su chi ha mosso cinicamente le pedine. Di fron­te alle violenze reiterate in Me­dio Oriente, in Mozambico e in alcuni Paesi lati­noamericani, si dovrebbero avere sussulti di compassione e d’indi­gnazione. Invece il giornalista re­gistra l’egoismo planetario che a­vanza: «Ci sono troppe persone desiderose di mangiare, di anda­re all’università, di prendere il potere, di vivere. L’uomo ha pau­ra dell’altro uomo e non tanto per il timore che questi lo uccida ma, in modo sempre più diffuso e frequente, che questi prenda il suo posto. La concentrata paura della morte è stata sostituita dal­la diluita paura di una mancanza di spazio». Kapuscinski non si scaglia soltanto contro l’indivi­dualismo imperante. È il silenzio colpevole a essere messo sotto accusa quale «strumento politi­co, esattamente come il fragore delle armi o i discorsi di un comi­zio. Uno strumento di cui hanno bisogno i tiranni e gli occupanti che vigilano», mentre «la propa­ganda locale ve­glia affinché alle orecchie degli a­bitanti dell’Eu­ropa, dell’Africa e della stessa A­merica Latina non giunga il minimo grido».

Il reporter po­lacco vuole far emergere lamenti, proteste, ve­rità scomode. E queste narrazio­ni di viaggio, documentate nei minimi dettagli senza mai essere leziose, intendono svegliare le coscienze distratte: «Oggi si parla molto della lotta contro il rumo­re, mentre è molto più importan­te combattere il silenzio. Nella lotta al rumore è in gioco la pace dei nervi, nella lotta al silenzio la vita umana».