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 2011  gennaio 27 Giovedì calendario

E IL TELEFONO SUONÒ (E RISUONÒ) IN REDAZIONE TULLIA ZEVI E I SUOI RIPETUTI RACCONTI SERALI PER CASO


« Pronto, casa Baldacci?». Una voce, al telefono, non ha un volto ma te lo lascia immaginare, ed è così che di giorno in giorno, per qualche mese, quella domanda spesso ripetuta formava via via nella mia testa le possibili sembianze della misteriosa interlocutrice. No, non era casa Baldacci, era il mio telefono di redazione qui ad Avvenire, ma la signora dalla voce chiara (accento milanese senza troppe inflessioni, età indefinibile), con un che di aristocratico e arguto insieme, esordiva ogni volta con quella stessa domanda destinata a naufragare sempre nel mio no: no, signora, gliel’ho già detto altre volte, qui non è casa Baldacci...
Pian piano il nostro è diventato quasi un gioco delle parti, e le brevissime conversazioni iniziavano a farsi più lunghe. Il giorno che il telefono taceva la strana signora mi mancava. Non so in quali proporzioni quel «casa Baldacci?» fosse una speranza reale o solo il lasciapassare di ogni sua chiamata, ma alla fine ho imparato a non rispondere più e a darle solo il benvenuto: «L’aspettavo!». Non mi ha mai saputo dire perché il mio numero di telefono nella sua mente rappresentasse qualcosa di importante, riesumato da chissà quale pagina di me¬morie lontane, ma la confidenza aumentava. Mi rac¬contava della sua Milano, ma poi della sua Roma, mescolando e confondendo passato e presente; mi diceva di esser stata giornalista corrispondente per decenni da New York, ma poi di aver scritto per ol¬tre trent’anni su un quotidiano israeliano che non ricordava, o ancora di essere stata un’arpista. E io sorridevo fingendo di crederle, convinta di regalar¬le il mio tempo... Finché un giorno mi ha detto il suo nome: «Mi chia¬mo Tullia Zevi». Confesso che il primo istinto è stato quello di ri¬spondere ’Sì, e io sono Maria Callas’, ma come sem¬pre ho solo ascoltato quella ignota intelligenza ve¬nata di umorismo: «Ah, non è casa Baldacci? scusi sa, io sono molto anziana e a una certa età si rim¬becillisce – ha riso –. Forse anche io lo sono, ma non mi dispiace, si sta abbastanza comodi! Intanto crol¬la il senso di autocritica e non si sta affatto male, anzi, non im¬magina quanto si viva bene sen¬za avercela con se stessi e per¬donandosi tutto». Mi ricordava la lucidità estrema di Alda Meri¬ni, la poetessa, stessa autoironia, stesso accento. Me la ricordava anche nel suo bisogno di con¬frontarsi e di toccare in un’unica telefonata i punti nodali dell’esistenza: «La felicità... Chissà se davvero esiste, lei cosa dice? Semmai può durare un attimo, altrimenti non sarebbe felicità... Chissà se sono mai stata felice. E lei? Lei è felice?».

Iniziavo a sentirmi spiazzata, ora il dubbio si faceva strada: qual è il suo nome?, le richiedevo a sorpresa, e la signora ribadiva sicura, «Tullia Zevi». Oscillava indecisa solo sul suo domicilio, ora Milano, ora Ro¬ma. Poi sceglieva Roma, «ma sono nata a Milano». Parlava di filosofia come di leggi razziali, ammoni¬va che «il peggio non è mai morto», ma poi rivendi¬cava la sua capacità di uscirne («nella mia vita sono sempre stata fortunata a poter dire no alle cose che non volevo»). Narrava di un marito conosciuto a New York («non so se ho fatto bene a sposarlo, forse sì, forse no») e di due figli, «ma ho tante cose da dir¬le, perché non mi viene a trovare? Abito a Roma, al Portico di Ottavia». Chiunque sia, decido che ci an¬drò, le dico anche il giorno: 22 gennaio, prima non riesco.

Ormai il dubbio è forte, cerco notizie, ’biografia di Tullia Zevi’: emigrata a causa delle leggi razziali, gior¬nalista negli Stati Uniti, corrispondente per trent’an¬ni per il giornale israeliano Ma’ariv , arpista in pre¬stigiose orchestre... È con ansia che, quando richia¬ma, la interrogo: non tentenna, non sbaglia nem¬meno i nomi del marito e dei due figli, «architetto l’uno e critica d’arte l’altra», dice con orgoglio. Qual era il suo cognome da nu¬bile? «Calabi», risponde, «deriva dalla parola Aleppo, la famiglia aveva origine siriana». E Baldac¬ci? Chi è questa Baldacci? «Luisa Angeloni, moglie del giornalista Gaetano Baldacci, fondatore del

Giorno , dalla prima ginnasio siamo sempre state a¬miche... ». Ma lei come ha il mio numero? Perché chiama me? «Questo non lo so».

L’ultima volta l’ho sentita il giorno dell’Epifania, quando mi ha fatto promettere che il 22 gennaio non sarei mancata. Le ho chiesto il suo numero di casa per richiamarla anch’io ma lei, che ricordava le antiche origini di Aleppo, si perdeva nella memoria recente. Dignitosa fino all’ultimo, quando le sugge¬rii di farsi scrivere quel numero su un pezzo di car¬ta alla prima visita di un figlio, mi ha spiegato che non lo avrebbe fatto: «Mi vergogno, come gli dico che non lo ricordo?». Solo alla fine di quell’ultima chia¬mata mi ha chiesto chi fossi io: «Giornalista anche lei?», si è illuminata, « Avvenire? »... un silenzio assor¬to e poi lentamente, quasi sillabando, «giornale mol¬to, molto interessante». Aveva ancora voglia di par¬lare, ma ho chiuso la telefonata, certa del prossimo incontro. Terrò in me il rimpianto di averlo fatto.

Per giorni ho aspettato che richiamasse, non l’ha più fatto e non immaginavo perché.

Il 22 ero a Roma, puntuale. È il giorno in cui ha chiu¬so gli occhi. Tullia Zevi, Cavaliere di Gran Croce del¬la Repubblica Italiana, per 16 anni presidente degli ebrei d’Italia, spirito libero e intellettuale illumina¬ta, ponte di dialogo tra ebrei e cristiani, si è spenta a 92 anni. Non saprò mai perché, all’imbrunire, ne¬gli ultimi mesi della sua vita facesse il mio numero: forse confondendolo con quello che fu di casa Baldacci, forse invece per lucida decisione. Forse per u¬na incredibile coincidenza. Per me, certamente, un privilegio, ancor più oggi, nella Giornata della me¬moria. Un privilegio di quelli per cui ti dici: cercherò di meritarmelo.