Massimo Martinelli, Il Messaggero 27/1/2011, 27 gennaio 2011
UN CEFFONE PER STORDIRLA, POI LA VIOLENZA E LE 29 COLTELLATE
La ammazzarono con uno schiaffone. Da dietro, mentre Simonetta cercava di uscire dalla stanza in cui la trovarono morta. Cercava di sottrarsi al pericolo di una persona che la insidiava. Non urlò e non perse la calma, perchè nessuno sentì strillare, in quel caldo pomeriggio agostano. Semplicemente si era resa conto di aver fatto entrare nel suo ufficio di via Poma 2 un uomo che voleva aggredirla. Stava mangiando un panino al prosciutto che rimase sul tavolo mentre era scalza, con le scarpe sistemate una vicina all’altra dietro al tavolo e mentre lavorava al suo computer con davanti il ventilatore in funzione.
Il ceffone le fece perdere i sensi, l’uomo le fu addosso. Prima sopra di lei, poi sul fianco. La spogliò per metà, ebbe pulsioni di libidine violenta. Poi si accanì con la lama, ventinove volte. Anche sul seno, sul pube. E’ questa la scena consacrata nel fascicolo giudiziario del più grande giallo romano degli ultimi decenni. Dal giorno successivo, era il 7 agosto 1990, e nei vent’anni che seguirono, la procura di Roma ha cercato il nome di questo omicida pazzo e pervertito sessuale. Ieri lo ha consegnato alla platea, che però è rimasta con l’amaro in bocca. Perchè il colpevole designato, Raniero Busco, non è un pazzo e non è un pervertito sessuale. Negli atti esistono le prove che non fosse nemmeno troppo interessato a Simonetta; voleva lasciarla e lei insisteva per avere un rapporto stabile. Aveva anche un alibi, ma le due signore che si sono presentate in aula per sostenerlo hanno rischiato l’incriminazione per falsa testimonianza. Soprattutto, se davvero quel pomeriggio si presentò in via Poma, era la prima volta che ci andava. E sempre in quel maledetto fascicolo giudiziario ci sono le prove che l’assassino conosceva il palazzo come fosse casa sua; dagli scantinati ai lavatoi. E come se fosse casa sua, cercò di tenerlo lontano dalle inevitabili ricerche che sarebbero seguite alla scomparsa di Simonetta, visto che si preoccupò di ripulire i tre litri di sangue che Simonetta perse sul pavimento mentre moriva (come dice la perizia medico legale), per far sparire il corpo a notte fonda. E si andò a ripulire le mani sul terrazzo condominiale, in una vasca dei lavatoi, (come scopriranno i carabinieri del Ris di Parma anni dopo, ritrovando tracce di sangue riconducibili al delitto).
Eppure lo hanno condannato. Anche se non aveva nessun movente e non ci fosse nessuna prova decisiva contro di lui, e neanche una testimonianza chiave. Fosse vivo, il papà di Simonetta, chissà come la commenterebbe questa sentenza. Prima di andarsene, anni fa, squassato dal dolore e dall’insofferenza per i magistrati che non gli davano giustizia, ripeteva come una litanìa che il nome dell’assassino era già negli atti, bastava rileggerli. E la stessa cosa diceva Lucio Molinaro, il legale della famiglia, anche se ieri dopo la sentenza si è detto soddisfatto. Eppure il nome di Raniero Busco non c’è mai stato in quel fascicolo: il povero Claudio Cesaroni e il suo avvocato Molinaro pensavano, anzi erano convinti, che il killer fosse qualcun altro. Chissà se Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile; o Federico Valle, il nipote dell’anziano decano degli architetti romani che abitava all’attico, che pure furono messi sotto accusa e prosciolti prima del processo. Oppure a Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta, passato nel tritacarne e poi restituito alla sua vita ridotto a brandelli. A tutti tranne che a Busco, pensavano quelli che conoscevano bene Simonetta e il suo mondo. E le stesse convinzioni mossero gli investigatori di altissimo livello che lavorarono al caso. Perché non è vero che quello di Via Poma è stato l’esempio di scuola dell’indagine strampalata: poliziotti come Nicola Cavaliere e come Antonio Del Greco catapultarono negli atti le radiografie complete delle vite del portiere Pietrino Vanacore, di sua moglie Giuseppa, dei suoi figli e delle loro umane vicissitudini. Rivoltarono come un pedalino Federico Valle. E ancora, raccolsero elementi a favore e contro Raniero Busco, fino a depennarlo dalla loro indagine.
Lo hanno confermato di persona, chiamati a testimoniare al processo che si è chiuso ieri: sul conto di Busco non emersero mai elementi tali da catapultarlo in cima alla lista dei sospetti. Eppure per la Procura di Roma, che in una delle prima udienze ritenne di chiarire che un processo del genere era doveroso farlo, c’erano quegli indizi ”gravi, precisi e concordanti” richiesti per mandare alla sbarra quell’uomo. E alla fine ce l’hanno fatta, i giudici romani. A ossequiare la memoria di Simonetta; a scansare la critica di non aver celebrato nemmeno un processo, di qualsiasi tipo fosse; e a consegnare alla cancelleria un nome e un cognome. Di un disgraziato qualsiasi, verrebbe da dire. Simile a quelli descritti da Alexander Pope, un poeta inglese del Millesettecento, che già ai suoi tempi aveva consegnato alle stampe un’immagine amara dei verdetti incomprensibili. Che diceva «I giudici affamati firmano la sentenza. E dei disgraziati vengono impiccati perché i giurati vadano a mangiare». Se Raniero Busco è davvero colpevole, che mangino sereni. Se non lo è, c’è da augurarsi che i prossimi giurati vengano al processo d’appello avendo già soddisfatto la loro pancia. E ribaltino una decisione che lascia troppe domande senza risposta.