Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  gennaio 27 Giovedì calendario

LA DIATRIBA DEI SUNNITI

Di questi tempi le mattine a Beirut sono una lotteria: bisogna lasciar dormire i bambini perché le strade bruciano e le scuole sono chiuse, lasciare l’auto in garage per non vedersela sprangata, o è un giorno come un altro, tutti bloccati nel traffico con il gusto del primo caffè nelle sinapsi addormentate?
Insomma, è la guerra civile o è un giorno come tanti? Il fatalismo libanese sfoglia ormai ogni giorno questa margherita quasi inconsapevolmente. I segni ieri mattina non erano incoraggianti. All’indomani della «giornata della rabbia» proclamata dai sunniti dell’ex premier Saad Hariri rimasti fuori dal nuovo governo, la tensione era ancora palpabile anche se le violenze nella capitale sono state molto più contenute che non a Tripoli, nel Nord sunnita. Il segretariato del movimento 14 marzo, il fronte «filoccidentale» capeggiato da Hariri, soffiava subito sul fuoco chiamando i suoi sostenitori a radunarsi ogni giorno alle sei di pomeriggio in Piazza dei Martiri, allo stesso tempo il luogo dove Rafiq Hariri, padre di Saad, fu ucciso e dove riposa la sua salma offerta, nel cuore di Beirut, alla venerazione dei cittadini. «Chiamiamo tutti i libanesi a manifestare pacificamente... ciò che è accaduto è un golpe pianificato per portare Mikati al potere alle condizioni di Hezbollah».

La principale di queste condizioni, s’intende, è che l’esecutivo smetta di appoggiare il Tribunale speciale dell’Onu sull’omicidio Hariri che, come ormai sa il mondo intero, si appresta a incriminare proprio alcuni dirigenti del partito di Dio. A rendere possibile questo terremoto politico era stato il leader druso Walid Jumblatt, che dopo la caduta del governo Hariri era passato al blocco rivale guidato da Hezbollah. Il partito sciita si è trovato così coi numeri per governare e ha proposto un premier sunnita, il tycoon delle telecomunicazioni di Tripoli Najib Mikati, 55 anni. «I sunniti sono io», ha risposto di fatto Hariri che un po’ ha appiccato il fuoco delle proteste, un po’ è corso a spegnerlo, mettendo a repentaglio la sua futura figura di statista con un posto accanto a quella del padre. La sua tesi è che soltanto il gruppo sunnita può designare il primo ministro. La decrepita Costituzione multiconfessionale lo vuole infatti seguace della Sunna, così come pretende un presidente cristiano e un segretario del parlamento sciita. Ieri però i sostenitori sunnitidi Mikati facevano notare che il loro leader è stato eletto in una costituente sunnita pura mentre Hariri è passato in un collegio misto della capitale: chi è il più sunnita? Cavilli per il fronte del 14 marzo che resta incrollabilmente fedele alla famiglia Hariri.

A metà giornata, il capo designato del governo Najib Mikati incontra il suo ex amico Saad Hariri nella veste formale di ex premier. Derby sunnita. Una foto li ritrae seduti come due animali impagliati su poltrone di pelle, tra di loro un tavolino col ritratto di Rafiq, fiori e la bandiera libanese. Sembrano fatti della plastica colorata dei cibi cinesi esposti in vetrina. Dall’incontro non uscirà una parola.

Il buio cola su Beirut insieme alla pioggia, neppure le luci sfavillanti di Solidere, la zona dei negozi più glamour, riescono a vincere i colori invernali. Siamo nel cuore di Hariri-land. Lo stesso nome il quartiere lo ha preso a prestito dalla società di Rafiq Hariri, che lo costruì sulle macerie della guerra civile. Due passi e si apre Piazza dei Martiri con in mezzo l’enorme fabbrica della moschea di Mohammad al Amin, fatta costruire indovinate da chi? Finita nel 2005, fu inaugurata soltanto nel 2008 a causa degli interminabili disordini politici e di una guerra. Il suo trionfalismo, i muri ambrati e le cupole azzurre, i minareti alti 72 metri (solo dieci in meno della grande moschea di alabastro del Cairo) le hanno attirato più smorfie che entusiasmi. I cristiani maroniti non la amano perché ha messo in ombra la vicina cattedrale di San Giorgio. Proprio di fronte, il vecchio cinema di cemento sbrecciato e abbandonato che somiglia a un’astronave della Guerra dei Mondi, dà un brivido d’irrealtà. E’ qui che i seguaci di Hariri figlio sarebbero dovuti convergere per «manifestare pacificamente». Non è aria. Ci sono poche jeep dell’esercito con i lampeggianti accesi, qualche soldato in mimetica con l’M-16 a tracolla puntato verso l’asfalto, conversa rilassato. Ci sono un paio di van con le grandi padelle satellitari. Uno è di Mtv (non la tv musicale, ma quella dell’ultradestra maronita di Samir Geagea), dentro c’è un ragazzotto coi capelli rasati che si ripara dal freddo.

Qualche sparuto seguace di Hariri s’incontra soltanto all’entrata dei tendoni bianchi che riparano la tomba dello statista ucciso. Un ragazzo con la sciarpa azzurra tiene arrotolata la bandiera blu col sole del partito del Futuro. Accanto, una signora porta sotto la giacca a vento la maglietta bianca con stampato il volto di Rafiq e un badge per soprammercato. Fuma una sigaretta guardando dove il mare e la notte diventano la stessa pece. Si chiama Mona Fuleihan e ha una storia da raccontare. Quello sulla maglietta non è Hariri ma il figlio di suo fratello Basil Fuleihan, morto il giorno di San Valentino del 2005 accanto al premier. Era il suo consulente economico, si era laureato a Yale. «Sono qui per loro - dice - per difendere la Costituzione che è stata violata. Solo i capi dei sunniti hanno diritto di nominare il premier». E il Tribunale? «Deve andare avanti», dice con decisione quasi estatica. Prima ancora delle ragioni e dei torti, sono questi sguardi, dalla simmetria raggelante nell’altro schieramento, a far pensare alle dure prove che ancora aspettano il Libano.