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 2011  gennaio 27 Giovedì calendario

IL MEDICO ITALIANO CHE BATTE IL DIABETE CON LE STAMINALI

(in allegato scheda con i numeri dei diabetici)
Se digitate su Google la frase «trecento milioni di casi al mondo», le prime risposte parlano di diabete. Trecento milioni: come la popolazione di tutti gli Stati Uniti, dove peraltro l’incidenza della malattia è altissima, poiché più del 60% della popolazione è sovrappeso. E sono 210 i miliardi di dollari che ogni anno si spendono per le cure e i trattamenti, solo negli Usa. Arriviamo a oltre 400 miliardi di dollari allargando il conto a tutto il pianeta.
Se la fame nel mondo è una delle catastrofi che sempre più ci colpirà nei prossimi decenni, specularmente l’obesità è un’epidemia che già oggi causa danni a catena. E non è solo un problema della patria dei fastfood. I dati recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dicono che il tasso di obesità nei bambini italiani è il più alto d’Europa. Più alto perfino di quello degli Stati Uniti. Facile, quindi, prevedere che nei prossimi anni la nostra popolazione sarà in gran parte fatta di ciccioni. Tutto ciò aiuta il diabete a diffondersi, almeno il diabete cosiddetto di tipo 2, quello legato ad alimentazione e stile di vita. Ve n’è infatti anche un altro tipo, ma che riguarda solo il 5% dei casi totali, che invece è di origine autoimmune.
Oggi questa malattia si cura con un’alimentazione controllata e farmaci a base di insulina. Ma c’è anche una cura.
Un italiano, direttore del Diabetes Research Institute di Miami, ha trovato un metodo per trapiantare solo alcune cellule del pancreas e fermare la malattia senza dover più somministrare farmaci insulinici. Si chiama Camillo Ricordi, ed è il massimo esperto al mondo di diabete. Lo abbiamo incontrato a Milano, dove si trova in questi giorni anche per stringere accordi di collaborazione con Carlo Tremolada, dell’Istituto Image di Milano e con Yvan Torrente, del Centro Dino Ferrari, Policlinico di Milano. Una collaborazione fra italiani, anche se uno dei due è residente all’estero.
Su che cosa state lavorando, professore? «Lavoriamo sulla possibilità di utilizzare cellule staminali adipose e riprogrammarle per renderle capaci di produrre insulina e così trapiantarle in maniera mirata nel pancreas dei malati».
Si tratta dell’applicazione del cosiddetto “metodo Ricordi”, ma con l’utilizzo di cellule diverse?
«Sì. Il mio metodo, che applico fin dagli anni Novanta e che nasce dal lavoro di Paul Lacy, un pioniere con cui collaborai. Si serve di un apparecchio in grado di individuare le “isole pancreatiche” permettendo così di trapiantare solo le cellule pancreatiche e non l’intero organo. Naturalmente la disponibilità di cellule pancreatiche è limitata e, quindi, i tempi per i pazienti si allungano, con tutte le conseguenze del caso».
Mentre le cellule adipose sono assai più disponibili. E ci sono problemi di rigetto? «Come in tutte le terapie che prevedono un trapianto, anche noi somministriamo farmaci antirigetto. Per questo motivo la mia terapia è applicabile ad oggi a circa il 5% dei pazienti, i più gravi. Ma stiamo lavorando con il Politecnico di Losanna sulla possibilità di incapsulare queste cellule dentro membrane particolari semi-impermeabili, così da eliminare i problemi di rigetto. A quel punto l’applicazione della terapia potrebbe essere aperta a tutti pazienti, anche quelli meno gravi».
E il diabete sarebbe debellato o quasi. Resterebbe però il problema del diabete di tipo 2, più legato a dieta e stile di vita.
«Per il diabete di tipo 2, il più diffuso, esistono anche delle responsabilità collettive, a partire dall’industria alimentare, che dovrebbe produrre cibi di migliore qualità. Poi c’è l’ambiente: se ci fossero più piste ciclabili la gente farebbe maggior esercizio fisico. E poi la scuola, la cultura e lo stile di vita. Se non ci sarà un intervento coordinato da parte di tutte le istituzioni, il problema della prevenzione sarà sempre più difficile da affrontare».
Lei è in Italia solo per pochi giorni, poi tornerà a Miami dove lavora. Non vede possibile un suo futuro qui?
«Si parla sempre di fuga di cervelli, ma io credo sia un falso problema. Dobbiamo ragionare in ottica internazionale: io mi sono laureato in Italia ed ho avuto un’intuizione per una terapia, ma la ricerca sarebbe stata troppo costosa per le possibilità di qui. Così sono andato negli Usa ed ho potuto sviluppare la mia idea e trasformarla in una terapia reale. Ora questa tecnologia e questa conoscenza sono a disposizione anche dell’Italia, dove industrie, start-up o altri istituti interessati possono dedicarsi a migliorarle. Capisce? L’importante non è il rientro dei cervelli, ma il rientro delle conoscenze».