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 2011  gennaio 26 Mercoledì calendario

COME RACCONTARE L’UNITÀ NELLE SCUOLE ITALIANE

Sono uno studente di liceo classico. Mi piacerebbe conoscere il suo pensiero sul seguente tema. Quest’anno ricorre il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Data l’importanza di tale evento, mi sarei aspettato che la scuola gli dedicasse una grandissima attenzione. Al contrario, a quanto vedo, mi sembra che vi sia un dilagante disinteresse. Anche alla luce di una scarsa coscienza degli avvenimenti che portarono all’Unità, ma soprattutto di una scarsa assimilazione di un sentimento nazionale, non crede che proprio dalla scuola debba partire una vera e propria campagna di sensibilizzazione su questi temi, affinché possa rinascere anche nelle nuove generazioni quel sentimento di comune appartenenza alla Nazione, sentimento che è stato alla base dell’Unità?
Francesco Cevasco Genova
Caro Cevasco, quando celebrammo il primo cinquantenario dell’Unità, nel 1911, l’Italia poteva salutare con soddisfazione i grandi progressi realizzati dal Paese durante l’era giolittiana e, di lì a poco, la conquista della Libia: un evento che suscitò l’entusiasmo della maggioranza degli italiani. Quando abbiamo celebrato il centenario nel 1961, potevamo compiacerci del modo in cui avevamo ricostruito il Paese dopo la Seconda guerra mondiale e collocato l’economia italiana fra le più dinamiche del Mercato comune, creato in Campidoglio con i trattati europei del 1957.
Oggi i festeggiamenti coincidono con una delle più gravi crisi economico-finanziarie delle democrazie occidentali. La crisi colpisce i giovani e i ceti sociali più bisognosi. Il passaggio al federalismo provoca dubbi, riserve, risentimenti e rende ancora più visibile lo storico divario fra le regioni settentrionali e le regioni meridionali. Il clima politico è complicato dalle vicende personali del presidente del Consiglio. Il ritardo con cui il governo ha finalmente deciso di celebrare la ricorrenza il 2 giugno, anziché nel giorno di marzo in cui fu proclamata la nascita del Regno, dimostra che la sua attenzione è stata monopolizzata in questi mesi da altre questioni, più contingenti e molto meno nobili. Spero che alla fine dell’anno potremo guardarci indietro e constatare che il Paese, nonostante tutto, è riuscito a organizzare eventi importanti e dignitosi. Ma il quadro, per il momento, non è incoraggiante.
Se le sue impressioni sono esatte, caro Cevasco, la pigrizia e il disinteresse della scuola mi sembrano tuttavia sorprendenti. Se fossi professore di storia e letteratura in una scuola della Repubblica, non avrei bisogno delle circolari ministeriali per cogliere al volo l’occasione offerta del 150 ° anniversario. Potrei cercare di raccontare le tappe di un processo che entusiasmò le classi liberali di tutta l’Europa. Potrei parlare di uomini e donne che ebbero in quegli anni una straordinaria notorietà internazionale ed esercitarono una grande influenza su tutti i movimenti risorgimentali. Potrei parlare dell’entusiasmo con cui Garibaldi fu accolto a Londra nel 1864, della venerazione suscitata dalla personalità e dagli scritti di Mazzini, dell’interesse con cui venivano lette le opere di Silvio Pellico, Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti, Massimo D’Azeglio, dell’attenzione con cui tutti i governi seguivano le magistrali mosse di Cavour. Non nasconderei naturalmente l’opposizione di Pio IX, la diffidenza degli Stati conservatori, l’ostilità dei gesuiti, l’incredulità di intellettuali come Pierre-Joseph Proudhon, autore di articoli contro l’unità italiana che sono stati recentemente pubblicati nella traduzione di Paola Giglio per l’editore Miraggi di Torino. Ma che cosa erano quelle opposizione e ostilità se non la dimostrazione dell’importanza di ciò che stava accadendo allora in Italia? Non occorre essere piemontesi o ammiratori dei Savoia per constatare che l’Unità d’Italia fu, come quella della Germania, un evento europeo destinato a modificare tutti gli equilibri politici del continente. Non occorre essere laici o, peggio, anticlericali, per ricordare che il compimento dell’Unità a Roma nel 1870 segnò la fine del potere temporale: un evento che persino la Chiesa, oggi, considera provvidenziale. Non è necessario essere nazionalista per osservare che nel 1861, dopo tre secoli di umiliazioni e declino, l’Italia ritornò finalmente in Europa.
Sergio Romano