Marco Imarisio, Corriere della Sera 26/01/2011, 26 gennaio 2011
SULLE ORME DI «CRODINO» E «PES». GLI ORDINARI RAPITORI DELLA BARA DI CUCCIA —
«La prossima volta chi sequestrate, Garibaldi o Mazzini» ? Ancora oggi la condanna più pesante è quella del bar. Ogni volta che Giampaolo Pesce e Franco Bruno Rapelli ci mettono piede, parte immediatamente il martirio da parte degli avventori, che si divertono a suggerire possibili bersagli per i due membri fondatori e unici soci della banda che dieci anni fa diede fama al loro Paese con la sua impresa bislacca. E il film che la celebra con tono agrodolce non ha migliorato la loro posizione. «Adesso che siete nel cinema provate a rubare Fellini...» . È andato in onda due giorni fa, «L’ultimo crodino» , trasmesso su una rete nazionale. E chissà, magari in giro c’è qualche matto si è ispirato alla saga di Pesce&Rapelli. Condove, 4.500 persone a ridosso della Val di Susa, che nella classifica dei Comuni più popolosi d’Italia sta al numero 2.549 su un totale di 8.100, cifre che costituiscono la premessa per parlare con il suo orgoglioso sindaco, Piero Listello. «Ma certo che sono ancora qui, i nostri eroi. Vedo che facciamo scuola, anche se avere dei concittadini che vengono emulati per le loro corbellerie non è certo la nostra massima aspirazione» . E giù una risata. Se la pericolosità di un criminale si giudica dal modo in cui ne parlano le persone che gli stanno intorno, Giampaolo Pesce, detto «Pes» , e Franco Bruno Rapelli, «Crodino» , sono rientrati da tempo nel rango delle persone normali. Magari un po’ bizzarri, ma normali. Danilo Ghia, che fu il loro difensore, attacca così la telefonata: «Magari sono stati loro, mi auguro che questo colpo l’abbiano organizzato meglio del precedente...» . Una battuta, l’ennesima. Certo che non sono stati loro. Pesce&Rapelli sono tornati ai loro lavori di autotrasportatore e operaio in fonderia. I conti con la giustizia li hanno chiusi in fretta, un anno di galera con la condizionale e 100 euro di multa. Poco più di un buffetto, motivato con la manifesta incapacità dimostrata dai due imputati durante la loro impresa. Eppure non si trovava nessuno disposto a ridere, la mattina del 17 marzo 2001, quando il custode del piccolo cimitero di Meina, pochi chilometri di distanza da Arona, si accorse che qualcuno aveva trafugato la salma del banchiere Enrico Cuccia. «Atto eversivo» , «opera di anticapitalisti anarchici» , «lavoro da veri professionisti» . I primi dubbi sulla professionalità della banda cominciarono a sorgere con la richiesta di riscatto, che fu mandata al Cuccia sbagliato. Paolo, amministratore dell’Acea romana, non parente. Il testo era accompagnata da una foto polaroid sbilenca, che riprendeva solo un angolo del loculo spalancato, inquadrando invece la tomba della moglie del banchiere, Idea Socialista. E le quattro telefonate partite all’indirizzo dell’altro Cuccia erano state effettuate dalla stessa cabina telefonica, tra Giaveno e Avigliana, a due passi da Condove. A ulteriore conferma del non eccelso livello di sagacia del duo giunsero le chiamate a ripetizione fatte per offrire uno sconto sugli iniziali sette miliardi di vecchie lire chiesti come riscatto. Quando il telefonista contatta l’allora amministratore delegato di Mediobanca, Vincenzo Maranghi, esce una voce tremante, rispettosa, che balbetta e s’impappina. «Qual è l’indirizzo di Mediobanca?» , chiede Pesce. Alla risposta di Maranghi segue un alt, un momento che bisogna prendere nota, prima di sbagliare un’altra volta il destinatario: «Scusi, può ripetere piano?» , dice Pesce. Per poi scandire: «Piaz-zet-ta-En-ri-co-Cuc-cia-nu-me-rou no. Giusto?» . La salma di Cuccia fu trovata in un fienile poco distante dalla casa di Rapelli. L’arresto arrivò come una liberazione. Pesce nominò subito un difensore di fiducia, peccato fosse un civilista specializzato in divorzi. Lo avevano fatto per i debiti. Crodino non si era più ripreso dal fallimento della sua azienda, avvenuto otto anni prima, Pesce aveva una figlia da mantenere, una macchina da pagare, l’affitto arretrato. Perché proprio Enrico Cuccia? «Avevo letto un articolo sul mensile economico Capital» , disse il camionista di Condove. Altra domanda dei magistrati: ma perché avete telefonato sei volte dalla stessa cabina? «Perché era l’unica che c’era sulla strada che facevamo tutti i giorni» . E come mai, l’ultimo giorno, avete dato «buca» a un appuntamento telefonico? La risposta di Rapelli fu disarmante: «Ma io a quell’ora avevo da lavorare» . Claudio Cracovia, capo della squadra mobile di Torino, sigillò la storia liquidando così l’eventualità di un terzo complice. «Impossibile trovare un altro essere umano che se la faccia con due sprovveduti del genere» .
Marco Imarisio