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 2011  gennaio 26 Mercoledì calendario

OBAMA: FRENIAMO LA SPESA PUBBLICA

Ieri notte, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, Barack Obama ha parlato di unità, di recupero di un tono costruttivo nel dialogo politico. E ha reso omaggio a Gabrielle Giffords, la deputata democratica ferita nella folle sparatoria di Tucson che avrebbe dovuto essere presente ieri sera fra i suoi colleghi «ma che questa sera non è tra noi» ha detto Obama nel suo discorso.

Poi l’omaggio a John e Roxanna Green, i genitori della piccola Cristina Taylor, 9 anni, nata l’11 settembre del 2001, uccisa a Tucson. In quel momento una grande emozione ha pervaso la sala dove erano riuniti, per la prima volta seduti vicini fra loro - e non separati nei rispettivi schieramenti politici - repubblicani e democratici, senatori e deputati. C’erano i ministri, la Corte suprema al completo, lo stato maggiore dell’esercito. Obama ha riconosciuto la vittoria dei repubblicani a novembre e la necessità di dialogare. L’atmosfera nuova in Parlamento era evidente, a presentare il presidente non c’era più «l’amica» Nancy Pelosi, ma «l’avversario» politico John Boehner: «Se credo che sia una buona idea che i membri del Congresso siano seduti insieme questa notte, il vero test per l’unità sarà nella capacità di lavorare insieme domani. Il futuro non è democratico o repubblicano, è nell’interesse della Nazione» ha detto Obama aprendo a quel punto il discorso alle tematiche politiche ed economiche del suo discorso, alla sfida di lavorare insieme ai repubblicani.

E alla presentazione di un programma economico, per creare occupazione, benessere e per riportare il rigore di bilancio, che guarda già alle elezioni del 2012. Il tema centrale del discorso di Obama è stato il futuro. A un piano quinquennale per «congelare la spesa pubblica, per riportare la percentuale di spesa pubblica sul Pil ai livelli più bassi dai tempi dell’amministrazione Eisenhower entro il 2015». Ma se la necessità di tagliare il disavanzo pubblico record (anche nella difesa) è prioritaria per la sicurezza del Paese, è anche importante non tagliare a tutto campo la spesa pubblica come vorrebbero i repubblicani. I tagli, ha detto Obama, dovranno essere responsabili, salvando le voci di spesa essenziali per il futuro americano: «Se voliamo su un’aereo troppo pesante, non miglioriamo la situazione tagliando uno dei motori» ha detto il presidente.

E ha poi presentato le sue cinque sfide per il futuro, i cinque pilastri su cui ricostruire la credibilità americana nel contesto della globalizzazione. Al primo posto «c’è l’innovazione, la necessità di essere sempre all’avanguardia, con lo sviluppo ad esempio di una rete informatica wireless nazionale per portare l’istruzione nelle zone rurali più remote del paese». Ma gli altri quattro elementi altrettanto importanti sono la pubblica istruzione, le infrastrutture, le riforme, a partire da quella fiscale, la responsabilità. Per rafforzare la leadership politica americana ci saranno i «valori americani, un punto di riferimento per le democrazie mondiali e per la libertà».

Il tono è stato ottimistico. I primi due discorsi sullo stato dell’Unione sono avvenuti in un contesto di emrgenza economica, di «pericolo catastrofico per il Paese». Oggi, ha detto il presidente, «si tratta di vincere il futuro». E ha raccontato molte storie americane di successo. Fra il pubblico, nella balconata della Camera, Michelle Obama con gli ospiti d’onore, ciascuno con una motiviazione che seguiva l’evolversi del discorso: un militare eroico come il sergente Salvatore Giunta, quando si è parlato di Afghanistan e Iraq, con la promessa di chiudere la guerra in Iraq e del ritiro già in luglio dei primi contingenti dall’Afghanistan. Giunta è un italo americano di stanza a Camp Ederle a Vicenza, il primo a ricevere la medaglia d’onore in vita per eroismo dalla guerra in Vietnam. Parlando della rete e della tecnologia ha nominato aziende come la Corning. Il presidente ha promesso «milioni di veicoli efficenti sulle strade entro il 2015» ha lanciato una proposta di compromesso ai repubblicani: se «procediamo con una riforma del sistema fiscale, che non abbiamo da 25 anni, se chiudiamo le scappatoie, in cambio sarò pronto a ridurre l’aliquota fiscale per le aziende». Ha chiesto infine lo stanziamento di 8 miliardi di dollari all’anno per spese in tecnologia per incoraggiare le imprese a investire, un terzo in più: «So che il bilancio è stretto, ma a certe cose non possiamo rinunciare». Ma i repubblicani si opporranno, faranno altre proposte di tagli. E Obama ha promesso che ricorrerà al veto presidenziale. Ieri notte a Washington si è aperta una nuova pagina della battaglia politica americana. Mario Platero • OBAMA 2.0 TORNA ALLE ORIGINI - Il discorso sullo Stato dell’Unione, pronunciato ieri notte da Barack Obama, ha confermato l’aspetto pragmatico della sua filosofia politica. Gli analisti parlano di svolta al centro, d’inedito approccio moderato, d’inesorabile passo verso la costruzione di un nuovo Obama. In realtà l’Obama 2.0 è identico all’Obama delle origini. Quello scoperto sul palco della Convention democratica di Boston sei anni fa, e ammirato nella campagna elettorale del 2008, era un Obama che si appellava all’unità del paese, che cercava un terreno comune, che provava a chiudere l’eterna guerra culturale americana. Obama non è un pericoloso estremista, come urlano i suoi avversari conservatori. Non è nemmeno un uomo pronto a ogni compromesso, come sospettano i suoi critici liberal. Obama non è né l’uno né l’altro. O, magari, è sia l’uno sia l’altro, ma nessuno, forse nemmeno lui, è mai stato capace di etichettarlo. Questa sua imprevedibilità, questo suo sfuggire alle categorie tradizionali, questo aspetto no label, difficile da inquadrare, è stata la novità dirompente della sua formidabile traiettoria personale e politica.

Nel primo anno alla Casa Bianca, per errori suoi e per bravura degli avversari, Obama ha perso il consenso dei moderati e degli indipendenti. Nel secondo anno, per cercare di mettere una toppa, ha perso il sostegno dei suoi. Il terzo anno sembra quello del rilancio. Le parole scelte per commemorare le vittime della folle strage di Tucson hanno consolidato l’immagine originaria di Obama quale guaritore supremo delle ferite ideologiche del paese. Sul fronte interno, il pragmatismo e lo spirito bipartisan hanno pagato. I sondaggi sono in forte risalita e molti parlamentari hanno deciso di ascoltare il discorso del presidente seduti accanto ai colleghi del partito avversario, invece che rigidamente divisi tra destra e sinistra.

Il leader del mondo libero però non può limitarsi alla semplice amministrazione, ma ha l’obbligo di far sognare, di guidare la comunità globale delle democrazie, di far risplendere come un faro di libertà quella «città illuminata sopra collina» di cui parlava Ronald Reagan citando il terzo governatore del Massachusetts John Winthrop (1630). Alexis de Tocqueville aveva individuato in alcune caratteristiche dell’esperienza americana – libertà, individualismo, uguaglianza, populismo, libero commercio – l’eccezionalità di un paese rivoluzionario. Un sondaggio Gallup di dicembre conferma che l’80% degli americani crede ancora oggi che gli Stati Uniti abbiano un carattere unico che li rende il miglior paese del mondo.

Obama non può sottrarsi a questo aspetto del carattere della sua nazione, all’eccezionalismo americano. Come per Abramo Lincoln e George W. Bush, anche per lui l’America è l’ultima grande speranza dell’uomo su questa Terra.

Alla Casa Bianca, Obama ha inaugurato una politica estera meno idealista, una via di mezzo tra la diffidenza storica che una parte della sinistra ha sempre avuto per l’interventismo americano e un corso accelerato di Realpolitik da destra repubblicana. La politica di engagement con i regimi ostili e dispotici non ha funzionato. La rivolta democratica in Tunisia è il penultimo esempio. L’ultimissimo è la ribellione anti-Mubarak in Egitto. Ma in fibrillazione ci sono anche la Libia, il Libano e chissà quanti altri, in un clamoroso effetto-domino democratico che va dall’Eufrate al Maghreb.

L’America e l’Europa post Bush e post Blair appaiono lenti a riconoscere le ragioni dei manifestanti democratici in Medio Oriente. La necessità di allontanarsi dalle politiche radioattive di Bush e Blair ha costretto America ed Europa a mantenere rapporti troppo stretti con i carcerieri del mondo.

Ai tempi della Guerra Fredda, una delle intuizioni vincenti di Reagan, oltre a non cedere di un millimetro sui principi, è stata quella di far sapere ai dissidenti comunisti, ai militanti democratici, agli oppositori del regime sovietico che l’America stava dalla loro parte. L’America era la città sopra la collina. La speranza di un domani migliore. La certezza che non sarebbero rimasti soli.

Obama bacchetta gli alleati democratici quando non esprimono al cento per cento i valori liberali accettati a Washington, ma non spende una parola contro le quotidiane violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita e in Egitto, paesi che dipendono finanziariamente, militarmente e politicamente da Washington. Le sanzioni all’Iran degli ayatollah atomici, faticosamente ottenute dopo mesi di trattative internazionali, pare stiano avendo un buon impatto. Ma l’obiettivo dell’embargo non è far vivere peggio gli iraniani. Le sanzioni avrebbero dovuto costringere gli iraniani a siglare un accordo sul nucleare. Ma non è successo, tanto che gli iraniani nel weekend scorso hanno ancora una volta rifiutato di prendere in considerazione l’ipotesi di negoziare.

Obama dovrebbe riabbracciare la Freedom agenda, promuovere la democrazia, battersi per cambiare i regimi autoritari, schierare l’America con i movimenti democratici, dalla Tunisia all’Iran, sostenere i governi liberali in difficoltà come la Colombia, invece di negargli il trattato di libero scambio per ragioni di politica interna. Cercare di portare alla ragionevolezza chi ragionevole non è non può essere considerata una politica saggia né pragmatica né realista. Christian Rocca