ENZO BETTIZA, La Stampa 26/1/2011, pagina 1, 26 gennaio 2011
LA RUSSIA E LE RADICI DELL’ODIO
Il terrorismo non è certo fenomeno nuovo nella storia della Russia, così come non sono affatto nuove le guerre e le guerriglie o gli atti di brigantaggio politico nei labirinti etnici e religiosi del Caucaso. Le statistiche storiche grondano di sangue, atrocità d’ogni genere, doppi giochi ambigui e pressoché permanenti. Dagli squadroni criminali a cavallo dell’Opricninà personale del veterozar Ivan il Terribile, dai metodi brutali della Preobra ž enskij Prikaz dell’illuminato Pietro il Grande, dalla spietata Terza Sezione del conte Bekendorf fino ai dipartimenti speciali e delittuosi dell’Okhrana del tardo zarismo si vide rigenerarsi sistematicamente, in Russia, un singolare quanto paradossale metabolismo: in sostanza si vide saldarsi, fuori d’ogni regola morale e d’ogni controllo legale, uno scellerato connubio tra il personale segreto addetto alla sicurezza dello Stato e gli uomini più in vista di organizzazioni eversive, populisti utopici, socialrivoluzionari dinamitardi, anche bolscevichi doppiogiochisti, intenzionati ad annientare personalità e settori dello stesso Stato che sovente li sovvenzionava, li copriva e perfino se ne serviva.
Non a caso l’esempio più clamoroso di un agente doppio assoldato dall’Okhrana fu quello di Evno Azef, il capo dell’organizzazione combattente socialista rivoluzionaria, uno dei maggiori precursori dell’impiego negli attentati di terroristi suicidi. Nei primissimi anni del Novecento Azev, mentre tramava l’assassinio di due ministri dell’Interno e di un granduca, riceveva somme imponenti dai servizi zaristi. Ad un certo punto, quel patologico genio della doppiezza e della provocazione non seppe davvero più per chi stesse lanciando bombe e uomini destinati all’autosacrificio: per lo zar o contro lo zar?
Qualcosa di simile si potrebbe dire per lo stesso Lenin che, al pari di Stalin, aveva tratto diverse ispirazioni tecniche dai labirinti dell’Okhrana. Negò fino all’ultimo la verità denunciata dai menscevichi a proposito di Roman Malinovskij, operaio e capogruppo dei sei parlamentari bolscevichi alla Duma, definendolo «dirigente proletario portatore di grandi speranze». Quando la triste verità venne inesorabilmente a galla, si seppe che Beletskij, direttore della polizia ai tempi di Nicola II, nei rapporti descriveva Malinovskij come «l’orgoglio dell’Okhrana».
Oggi, dopo il devastante e spettacolare massacro compiuto da uno o due kamikaze all’aeroporto moscovita di Domodedovo, si parla con sufficienti ragioni cronachistiche di un ennesimo atto terroristico «di matrice caucasica e islamica». Ma il terrorismo nel Caucaso, che non comprende solo ceceni, daghestani, ingusci, eccetera, aveva conosciuto pure radici non islamiche. Prima della rivoluzione uno dei più terribili attentati di brigantaggio terroristico fu compiuto da un ex seminarista ortodosso, il ventinovenne Josif D ž uga š vili, in seguito noto come Stalin, che il 13 giugno 1907 mise a ferro e fuoco il centro di Tiflis, capitale della Georgia. Scopo del vasto e organizzatissimo assalto, che si prolungò per un giorno e una notte, era un carro blindato che trasportava quintali di rubli, destinati secondo il piano a foraggiare il partito bolscevico dal capobanda e dai suoi uomini di mano: malavitosi comuni, fuorilegge disperati, preti spretati, principi romantici e chisciotteschi ridotti in miseria. Luogotenente del futuro Stalin era il leggendario armeno Kamo, temerario rapinatore di banche, maestro di evasioni, un quasi matto incline ad una violenza crudele e senza freni. Erano tutti, in qualche modo, fondamentalisti del terrore. Li dipinge così Simon Sebag Montefiore, documentato biografo del giovane Stalin: «Le loro azioni erano criminali, ma non gli importava nulla del denaro; erano devoti a Lenin, al partito e al loro burattinaio di Tiflis: Stalin». Qualche giorno prima Lenin e Stalin s’erano incontrati segretamente a Berlino, per mettere a punto il colpo nonostante il partito socialdemocratico, di cui i bolscevichi facevano ancora parte, avesse rigorosamente vietato i cosiddetti «espropri proletari» (cioè rapine bancarie). Gli avvenimenti di quella giornata di sangue scossero dalle fondamenta Tiflis e il Caucaso e polverizzarono il già spezzato partito socialdemocratico nella violenta fazione leninista e in quella più intellettuale dei menscevichi di Martov e Plechanov. Comunque, agli occhi di Lenin, le gesta banditesche di Stalin, sempre meticolose, segrete, perfezioniste, dovevano fare di lui il «principale finanziatore del Centro bolscevico».
Come si vede, il terrorismo russo, già agli inizi del secolo scorso militarmente e ideologicamente radicato nel Caucaso, era un fenomeno a suo modo ancestrale, trasversale, equivoco, a doppia lama. Si avvinghiava da ogni lato alla complessa storia russa, allo Stato russo, alle polizie russe e, infine, alla stessa rivoluzione russa, alla guerra civile russa, alla collettivizzazione forzata contro i contadini e all’arcipelago Gulag. Le stesse fortune e sfortune di Putin ci appaiono oggi, per più aspetti, legate per calcolata reazione ad un terrorismo islamico che ha trovato comunque nell’odiata Russia un terreno fertile e perfino qualche maestro cattivo da cui assorbire la lezione. Fra le notizie nei giornali mi ha particolarmente colpito, per esempio, il fatto che un siberiano slavo, Alexander Tikhomirov, sia diventato un istruttore di giovani kamikaze ceceni, uomini e donne; fino alla sua morte, avvenuta l’anno scorso durante un conflitto a fuoco, ha preparato plotoni di fanatici suicidi curandone personalmente l’addestramento. Quanto a Putin, sarà bene non dimenticare che la lotta al terrorismo è stata il trampolino di lancio nella sua straordinaria ascesa al potere. Era appena diventato Presidente nel 2000 quando, di lì a poco, scoppiarono gravi attentati alla periferia di Mosca che lo spinsero a sobbarcare l’esercito russo alla seconda guerra cecena e a chiudere con toni gelidi una memorabile trasmissione televisiva: «Darò la caccia ai terroristi fino ai cessi più profondi».
Poi Grozny è stata rasa al suolo dai blindati e dai cannoni russi. Dopodiché è stata ricostruita e «pacificata» sotto il knut di Kadyrov: un pascià collaborazionista crudele, corrotto e privo di scrupoli che, coperto dal Cremlino, ha continuato a governare la Cecenia con brutalità terroristica nel nome della Russia cristiana.