Marinella Correggia, il manifesto 26/1/2011, 26 gennaio 2011
JATROPHA E FALSI MIRACOLI
Traballa il piedistallo della jatropha e non solo perché in questi giorni l’organizzazione ambientalista internazionale Friends of the Earth lancia il rapporto «Jatropha: money doesn’t grow on trees» (Jatropha: il denaro non cresce sugli alberi), che cade in un momento di acceso dibattito nell’Unione Europea a proposito degli agrocarburanti e dei loro effetti collaterali.
Riepiloghiamo: si sosteneva che la jatropha potesse crescere su terre altrimenti non coltivabili in Africa, Asia e America Latina, per offrire biodiesel e lavoro nei paesi poveri senza sottrarre colture alimentari a bocche affamate e in costante aumento. Il sito di un fondo di investimento olandese in jatropha recita: «La pianta sopporta la siccità e bassi livelli di nutrienti; diverse aree desertiche attualmente non coltivate possono essere adatte alle piantagioni». Però alcuni produttori di agrocarburanti in Africa e Asia hanno trovato che non è proprio così. È vero che la jatropha può crescere senza irrigazione, ma buoni ricavi dipendono dalla bontà dei suoli e dagli input chimici somministrati... Insomma la si può coltivare su suoli marginali e senza nulla, ma le rese saranno marginali anch’esse, ha detto all’agenzia Reuters il direttore di Sun Biofuels che ha provato a piantarla in Tanzania e Mozambico. L’azienda stima che la sua piantagione mozambicana potrà dare circa due tonnellate di olio per ettaro a jatropha, e si tratta di suoli fertili, ai quali vengono somministrati fertilizzanti e pesticidi; resa insufficiente per garantire un ritorno negli investimenti. Certo, in precedenza quelle stesse superfici erano coltivate a tabacco. E certo, questo arbusto coltivato senza input e senza irrigazione potrebbe comunque offrire agrocarburanti per gli usi rurali locali, in quantità limitate e al di fuori di meccanismi di profitto.
Ma il miracolo di alimentare distese di macchine assetate di carburanti, non lo farà nemmeno la jatropha.
Intanto il governo statunitense ha accordato prestiti a quattro compagnie per aiutarle a costruire impianti di produzione di combustibili da fonti diverse dai prodotti agricoli: etanolo da cellulosa, diesel da grassi animali, oli di cottura, scorze di agrumi. Ora circa il 40% del mais coltivato negli Usa va nella produzione di etanolo. Produrre a livello commerciale agrocombustibili da mais e soia è più conveniente che con queste «fonti alternative» e per questo la normativa usa ha abbassato l’anno scorso gli obiettivi di produzione di agrocombustibili «avanzati», al tempo stesso offrendo aiuti a chi prosegue sul cammino. In caso di difficoltà provate nella restituzione dei prestiti, questi si trasformeranno in contributi.
Contestualmente la governativa Environmental Protection Agency (Epa) ha annunciato il cosiddetto E15, ovvero un aumento al 15% (dal 10%) della percentuale di etanolo ammissibile negli autoveicoli costruiti fra il 2001 e il 2006, dopo aver fatto lo stesso per auto e camion costruiti dopo il 2007. Occorrerà ancora tempo per superare gli ostacoli logistici e tecnici. Ma fin d’ora si sono levate le proteste degli allevatori (per via dell’aumento dei costi per i mangimi), di chi lavora i prodotti petroliferi e delle stazioni di servizio (timorose di ricorsi per eventuali danni ai motori). In pochi si attendono un rapido incremento nell’uso di etanolo, ma la concorrenza fra i diversi usi del mais - cibo (esportazioni verso il Messico per la tortilla), mangimi e carburanti - ha portato lo stock di mais ai minimi storici.