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 2011  gennaio 25 Martedì calendario

LE SENTENZE NON VANNO SCAMNIATE PER UN «GIUDIZIO DI DIO»

Mi hanno colpito le parole di Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia, dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ne conferma la condanna a sette anni: «Affronto la pena come è giusto che sia» . Sembrano un’ammissione di colpevolezza tanto più sorprendente se si tiene conto delle ombre che si sono allungate sul processo e che hanno pesato su un’accusa così difficile da definire concretamente quale è quella di collusione con la mafia in una regione dove i confini fra società legale e società criminale sono spesso tutt’altro che individuabili sociologicamente e, soprattutto, di facile codificazione sotto il profilo giuridico.
Le ombre. Prima: Cuffaro aveva più volte dichiarato di «non avere mai consapevolmente incontrato mafiosi» , un’espressione sulla quale si era fondata, a suo tempo, la sentenza di assoluzione di Calogero Mannino dall’accusa di «concorso esterno di stampo mafioso» . L’ex governatore si era battuto, vent’anni fa, in difesa di Mannino, accusato, assolto, condannato e nuovamente e definitivamente assolto (dopo diciassette anni!). Seconda: si è trattato del «"processo politico"— come scrive Giovanni Bianconi («I chiaroscuri del processo e le relazioni pericolose» , Corriere del 23 gennaio) — che più ha caratterizzato gli ultimi dieci anni dell’antimafia giudiziaria, segnato da forti contrasti fra accusa e difesa (abbastanza naturali) e all’interno della magistratura (meno naturali)» . Lo stesso procuratore generale era convinto dell’inesistenza della prova.
Le conseguenze. Un fatto sarebbe stato, dunque, da parte di Cuffaro, il rispetto (sempre dovuto) per l’istituzione che ha emesso la sentenza (la Corte di Cassazione), un altro è la sua rassegnazione di fronte a una sentenza fondata su prove che dall’imputato stesso, per non parlare addirittura all’interno della stessa magistratura, erano state ritenute infondate. Una sentenza di tribunale non è la Verità rivelata e, in quanto tale, indiscutibile per definizione; è una verità processuale — frutto del confronto fra accuse e prove a discarico in sede dibattimentale — nonché (presumibilmente) correlata al contesto in cui si sarebbe perpetrato il reato, nella fattispecie la difficile individuazione della contiguità fra mafia e società civile e politica e, per ciò stesso, esposta all’errore. Cesare Beccaria era contrario alla pena di morte non per ragioni umanitarie, ma perché escludeva la possibilità che la sentenza potesse essere emendata qualora si fosse rivelata errata.
Insomma, ciò che mi ha colpito nelle parole di Cuffaro è che una condanna, della cui legittimità si era discusso fino a pochi minuti prima, sia stata accettata come un «giudizio di Dio» , insindacabile e indiscutibile anche da parte di chi ne usciva sanzionato. Una sindrome, diffusa negli ambienti giustizialisti collegati con le Procure e i pubblici ministeri, cioè con l’accusa, che ha contagiato persino coloro i quali, in uno Stato di diritto e in un Paese civile, si collocano dalla parte opposta, cioè della difesa. Ma che razza di Stato di diritto e di Paese civile è mai, mi chiedo allora, questo, dove la presunzione di innocenza è negata a priori in vista dell’istruzione di processi mediatici e allo scopo di pervenire al linciaggio morale dell’accusato, e la possibilità di errore, a sentenza avvenuta, è esclusa anche da parte di chi l’ha sostenuta in sede processuale?
Personalmente, ritengo che la diffusione di tale sindrome sia il riflesso di un’errata, ma ormai diffusa, convinzione che compito della Giustizia non sia di applicare la legge, di condannare o assolvere chi è accusato di aver compiuto un reato, bensì quello di «far rigare dritto» i cittadini. Il fatto, poi, che la magistratura, sulla base di tale convinzione, sia stata investita di una missione salvifica, spiega, altresì, perché una parte dell’opinione pubblica e, ahimè, degli stessi magistrati, ritengano rispettato il compito della Giustizia solo quando soddisfa le loro pulsioni morali soggettive. Una distorsione, questa, dello «spirito delle leggi» che ha finito con giustificare l’autoreferenzialità di certi pubblici ministeri che parlano più come preti che come magistrati e tendono, di conseguenza, a confondere il peccato col reato, un comportamento condannabile sul piano morale e politico con un comportamento penalmente perseguibile; a «fare giustizia» , più che a realizzare Giustizia.
Penso, d’altra parte— sulla base della mia lunga esperienza di dialogo con i lettori — che farei torto a quei magistrati se attribuissi solo ad essi la «distorsione dello spirito delle leggi» di cui parlo. No, essa è figlia della carenza di cultura liberale — dei diritti e delle libertà individuali— di un Paese che ha ereditato dal totalitarismo (dal fascismo), e non l’ha ancora esorcizzata, l’idea che le ragioni dello Stato, incarnate nella fattispecie dal sistema giudiziario, debbano sempre prevalere su quelle degli Individui, e ha assimilato, dal Sessantotto, la prospettiva di cambiare il mondo. Col risultato che una assoluzione è percepita come una sconfitta dello Stato, e della Verità rivoluzionaria, e una condanna come un loro successo. In definitiva, ci siamo dati uno Stato di diritto senza possederne la cultura che in altri Paesi ne è il fondamento morale e, forse, neppure le istituzioni. Non siamo una democrazia compiuta e neppure ancora un Paese civile.
Piero Ostellino