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 2011  gennaio 25 Martedì calendario

SCHEDONE SULLA RIVOLTA IN EGITTO


• L’Egitto è il primo Paese nel mondo arabo per tasso demografico e il terzo in Africa. Registra tassi di crescita sostenuti (la Banca Mondiale prevede un 5,5% nel 2011), ancora in aumento gli investimenti esteri, tenuta del turismo e dell’export, ma allarme per il rialzo dei prezzi alimentari, l’elemento che ha scatenato le rivolte in Tunisia e Algeria a inizio gennaio. Dalle campagne continua la massiccia emigrazione nelle periferie delle città, dove la trasformazione verso l’economia di mercato non assorbe abbastanza mano d’opera, mentre la popolazione si avvia verso i 90 milioni (oggi poco meno di 80), tre volte quella degli anni Sessanta.
Nonostante la forte repressione attuate dai Mukhabarates-A’amat, i servizi segreti, (le leggi speciali per lo stato di emergenza del 1981, in seguito all’assasinio di Sadat, sono ancora in vigore), la stabilità del regime è a rischio.
E soprattutto a settembre si vota per il raìs.

• Il presidente egiziano Hosni Mubarak ha 82 anni, è capo dello Stato dal 1981 e si accinge a completare il suo quarto mandato.
Mubarak è un generale dell’aeronautica che ha conquistato la presidenza dopo l’assassinio del suo predecessore. Spera probabilmente di trasmettere il potere al figlio Gamal.
Il partito di Mubarack, il Pnd (Partito nazional democratico), è la formazione politica dominante. Di fatto, il partito unico che il presidente ha affidato proprio al figlio più giovane, Gamal; mentre l’altro figlio, Alaa’ Mubarak, si dedica agli affari. Un gran numero di partiti minori, impegnati in un’opposizione dubbia e con angusti spazi di manovra, dà una parvenza democratica a un regime non del tutto democratico.

• La liberalizzazione degli scambi economici voluto da Mubarak ha avuto come principale conseguenza una ancora più ampia differenza dei redditi. Il rincaro dei prezzi porta a puntuali rivolte: la più recente e la più grave è avvenuta nel 2008.
La differenza più marcata in un paragone con la rivolta tunisiana è la componente religiosa, totalmente assente tra i manifestanti di Tunisi. Invece il movimento dei Fratelli Musulmani, moderato ma anche matrice di correnti integraliste, in elezioni oneste, senza i grossolani brogli tradizionali, otterrebbe in Egitto risultati vistosi. Mubarak li tiene a bada, li emargina, capita che li corteggi in segreto, aiuta le moschee e cosi indirettamente li blandisce, li mette ogni tanto in prigione.
Tra i suoi principali compiti c’è quello di impedire il dilagare dell’islamismo. Il pericolo islamista, vero, esagerato o inventato, dà legittimità ai regimi autoritari come quello egiziano.
L’Egitto di Mubarak è schiacciato tra gli Stati Uniti, che finanziano in larga parte il suo esercito, e Israele, che gli consente un ridotto spazio di manovra. (notizie tratte da Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera 15/1/2011, Bernardo Valli, la Repubblica 21/1/2011).

• Il 18 gennaio, dopo ore di agonia, è morto un 25enne di Alessandria che si era dato fuoco per protestare contro la mancanza di lavoro. Questo era il terzo tentativo di bruciarsi e la prima vittima egiziana collegabile all’onda della rivolta tunisina, scatenata dall’ambulante che il 17 dicembre scorso si era dato fuoco innescando le proteste. Il morto si chiama Ahmed Hasim al Sayed. La mattina del 18 gennaio era salito sul tetto della sua casa, si era cosparso di kerosene e si era dato fuoco, riportando gravi ustioni sul 95% del corpo. La famiglia ha spiegato che il ragazzo era depresso da tempo per la mancanza di lavoro.
Più o meno nelle stesse ore al Cairo Mohammed Faruk Hassan, avvocato 50enne, si era cosparso di benzina vicino al Parlamento, riportando ustioni leggere a una gamba. Il giorno prima un 40enne, nello stesso posto, si era dato fuoco per protestare contro le razioni di pane.
In seguito a questi avvenimenti Al Azhar, il più importante centro teologico del mondo sunnita, ha ricordato che «per l’Islam il suicidio è inaccettabile». (Corriere della Sera 19/1/2011)

• Come ha raccontato Bernardo Valli sulla Repubblica del 24/1, in Egitto blog, Facebook, Twitter, insomma tutte le forme di comunicazione offerte dal web, consentono agli internauti di beffarsi dell’imponente apparato di repressione, e di promuovere dialoghi e progetti di rivolta senza curarsi della censura.
In Egitto i giovani che utilizzano internet sono 17 milioni, Facebook è praticata da dieci milioni, Twitter ha più iscritti di qualsiasi altro paese arabo.
L’opposizione ha margini di manovra limitati e la stampa è sotto stretta sorveglianza, anche se si consente libertà impensabili in tanti altri paesi arabi. È su Internet che si lanciano idee, si stilano annunci, si inventano slogan, si promuovono iniziative. I ministri e gli esponenti del business, integrati nel partito dominante del presidente (il Partito nazional democratico), in queste settimane hanno negato con forza che ci sia nel paese un contagio tunisino.
Ma i piccoli partiti d’opposizione, inascoltati, emarginati e non sempre affidabili, hanno tuttavia intensificato i contatti. Si consultano. Sono entrati in agitazione anzitutto i movimenti estranei al quadro istituzionale.
La manifestazione di oggi, martedì 25 gennaio, è stata infatti organizzata da Internet.

• Tra i blogger più popolari c’è Gamal Eid, ex avvocato e un tempo impegnato nell’Human Rights Watch. Se i giornalisti vanno raramente in prigione, i blogger sono condannati con facilità. Per avere mancato di rispetto al presidente in una poesia uno di loro è stato condannato a tre anni di carcere. Anche i Fratelli Musulmani, hanno creato un’ampia galassia di siti.
Mahmud Abdel Monem, trent’anni, ha conquistato una grande popolarità raccontando nel suo blog le torture subite nei sei mesi di prigione passati insieme ad altri millecinquecento Fratelli Musulmani. Ha poi preso le distanze dalla confraternita e adesso si ispira, come molti giovani religiosi, al partito turco islamico (AKP). Tra i blogger più popolari c’è anche una donna, Esraa Abdel Fata Ahmed, che coordina una rete di siti Web.

• Scrive Bernardo Valli: «Il mondo egiziano di Internet è ricco di personaggi. Il più noto è Mohamed el Baradei, premio Nobel per la pace ed ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia. Su Facebook Baradei chiede una transizione pacifica del potere, a suo avviso il solo modo per evitare una ripetizione dei fatti tunisini in Egitto. Una riforma costituzionale gli consentirebbe di partecipare, anche se con scarse possibilità di successo (dice di avere raccolto un milione di consensi), alle elezioni presidenziali di fine d’anno. Quando si esaurirà il mandato di Hosni Mubarak, al potere da tre decenni.
L’appuntamento è carico di rischi, per un potere che trae le origini dal colpo di Stato militare del 1952, quando re Faruk fu mandato in esilio e si concluse la monarchia egiziana. Nonostante gli eventi traumatici, la morte improvvisa di Nasser, quattro anni dopo l’umiliante disfatta del ’67, nella terza guerra con Israele, e l’assassinio di Sadat nell’81, le successioni si sono svolte senza strappi apparenti. E sempre nell’ambito militare.
Adesso, a 82 anni, e con una salute malferma, Mubarak potrebbe anche ripresentarsi per un ulteriore mandato di sei anni. Oppure, come si pensa, potrebbe proporre, vale a dire tentare di imporre, il figlio Gamal di 47 anni. Il quale non sarebbe però gradito all’esercito. Perché non è un militare (il padre gli ha dato responsabilità nel partito) e non sarebbe quindi nella tradizione. Inoltre Hosni Mubarak è un presidente che non ha mai suscitato grandi entusiasmi, e che ha favorito la famiglia. Non sarebbero quindi in molti a vedere di buon occhio una sua riconferma, malato com’è, o una successione in favore del figlio. Questi sono aspetti che fanno pensare alla vicenda tunisina. Ma la grande differenza è che, al contrario di quello tunisino, l’esercito egiziano ha un peso determinante. E ha ben altre dimensioni» (la Repubblica 24/1/2011).

• Ha scritto Sergio Romano sul Corriere della Sera del 13 gennaio: «L’Egitto, insieme al Marocco, è il più vecchio Stato arabo della regione. È nato nei primi decenni dell’Ottocento grazie all’energia e alle intuizioni di un geniale albanese al servizio dell’Impero ottomano, Mohammed Ali. È diventato vassallo dell’impero britannico nel 1882, ma ha conservato anche negli anni del protettorato il suo sovrano, una decorosa funzione pubblica, una élite mercantile e intellettuale, una intelligente apertura all’influenza dell’Occidente, una forte identità nazionale, un buon grado di tolleranza religiosa. Ed è stato, fino alle rivoluzioni islamiste degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, l’unico Paese arabo capace di elaborare modelli politici secolari come il nazionalismo e il panarabismo di Nasser.
Ma il nazionalismo è stato sconfitto sui campi di battaglia delle guerre arabo-israeliane e il panarabismo non ha mai superato lo stadio sperimentale delle effimere unioni con la Siria e con la Libia. L’Egitto non è uno Stato fallito, ma non riesce a sfamare i suoi troppi cittadini (77 milioni) e a intaccare sensibilmente la percentuale dell’analfabetismo (il 35% della popolazione). È accaduto così che in questo Stato laico e culturalmente filo-occidentale le masse deluse cadessero nelle braccia dei Fratelli musulmani, nati nel 1929, ma divenuti molto più influenti dopo il fallimento dei processi di modernizzazione nei Paesi della regione. Mubarak tiene a bada i Fratelli con qualche concessione e con qualche compromesso, ma si serve del pericolo islamico per giustificare il suo regime, le leggi d’emergenza e la permanenza al potere. L’Egitto, di conseguenza è meno laico, meno tollerante e meno esemplare di quanto fosse nei momenti migliori della sua storia. Non è dal Cairo, purtroppo, che i Paesi del Maghreb possono importare modelli di sviluppo economico e civile».