Miguel Gotor, Il Sole 24 Ore 25/1/2011, 25 gennaio 2011
UN POLITICO LA LEGGE E LA DIGNITÀ
La mattina in cui attendeva il verdetto della Cassazione, il senatore Salvatore Cuffaro si è alzato presto per andare in chiesa a pregare. Nella basilica di Santa Maria sopra Minerva, sede nel Seicento del tribunale dell’Inquisizione romana, nella piazza dove avvenivano i supplizi di giustizia tra ali di folla avide e ansimanti. Le cronache raccontano che due agenti in borghese lo sorvegliavano discretamente da dietro una colonna per timore di un’eventuale fuga. Poi è rientrato a casa, ha aspettato la sentenza che lo ha raggiunto al telefono, ha pianto e ha raggiunto il carcere di Rebibbia.
Si conclude in questo modo la parabola politica dell’ex presidente della Regione Sicilia giudicato colpevole di un reato ignobile per un pubblico ufficiale: favoreggiamento aggravato alla mafia e rivelazione del segreto istruttorio. L’avventura aveva avuto un inizio mediatico a suo modo premonitore nel 1991: l’allora trentenne Cuffaro, mentre assisteva tra il pubblico a una puntata di Samarcanda in memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso da Cosa Nostra per essersi rifiutato di pagare il pizzo, chiese la parola e cominciò a inveire contro Giovanni Falcone e il «giornalismo mafioso» in difesa del buon nome della Sicilia e della sua classe dirigente. Sarebbero poi venuti i giorni del potere, la Sicilia governata a forza di voti e di clientele, fino alla vertiginosa caduta del figlio di due maestri elementari di Raffadali, cresciuto a "sfincione" e Dc.
In questi giorni però è necessario sottolineare la dignità e la compostezza con cui ha affrontato la sentenza, riassunta nella seguente dichiarazione: «Sono un uomo delle istituzioni che ha fiducia nelle istituzioni e dunque nella magistratura che rispetto anche in questo momento di prova». Lo ha riconosciuto il magistrato che lo ha condannato e lo ha evidenziato l’Avvenire in un editoriale in cui si ricorda Paolo Borsellino e «l’imperativo categorico della politica di essere una casa di cristallo» insieme con le parole di un altro magistrato ucciso dalla mafia, Rosario Livatino, agrigentino come Cuffaro: «Non ci sarà chiesto se siamo credenti, ma credibili». Un atteggiamento simile a quello dell’ex governatore ebbero il suo mentore politico Calogero Mannino, assolto in Cassazione dopo un calvario giudiziario durato sedici anni e soprattutto l’uomo simbolo del potere democristiano in Italia, Giulio Andreotti. Anche lui si è sempre difeso dentro il processo e non dal processo, dando prova, nonostante l’infamante qualità delle accuse, la durata decennale dell’iter giudiziario e l’età sempre più avanzata, di rispettare le istituzioni repubblicane che l’hanno visto ricoprire per sette volte la carica di presidente del Consiglio.
Tali condotte inducono a chiedersi se nel politico di estrazione cattolica non ci sia una capacità particolare di sottomettersi alla giustizia terrena, una risorsa di fede e di cristiana rassegnazione che si traduce in un elemento di forza personale e di virtuosa sensibilità sul piano istituzionale nel momento della disgrazia.
Purtroppo, al comportamento responsabile di Cuffaro bisogna contrapporre le immagini sguaiate di quanti in queste ore hanno pensato di festeggiare a base di spumante e cannoli la sua carcerazione, convinti di rappresentare la parte «buona e sana» della Sicilia e non quella incivile. L’amministrazione della giustizia è sempre un compito tragico che non dovrebbe ammettere brindisi di sorta, ma nel nostro paese non sono presenti solo la mafia e la corruzione, bensì anche un umore forcaiolo e giustizialista che costituisce un tratto distintivo del corpaccione italiano sin dai tempi in cui l’unica forma di giustizia praticata a livello unitario era quella inquisitoriale, per definizione politica.
Cuffaro ha scelto di portare in carcere La fattoria degli animali di George Orwell, la straordinaria allegoria della corruzione del potere totalitario, in cui, nel mondo dominato dai maiali, «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Egli ha certamente molte colpe come politico, ma nelle sue ultime ore da uomo libero non ha sbagliato una mossa: la sua vicenda è lì a ricordarci che in una fattoria democratica «la legge è uguale per tutti».