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 2011  gennaio 25 Martedì calendario

SUL CONTRATTO AZIENDALE LA SFIDA DELLA COMPETITIVITÀ

Negli ultimi anni la contrattazione collettiva nazionale ha perso terreno nei confronti della contrattazione a livello aziendale, anche nei paesi a tradizione socialdemocratica, come la Germania e la Svezia. Questo processo deriva dalla necessità di aumentare la produttività e resistere alla concorrenza internazionale.

Gli accordi aziendali consentono di realizzare le ristrutturazioni necessarie a tenere il passo con il progresso tecnico, dal quale dipende l’occupazione e la dinamica salariale. Non c’è dubbio, però, che questa tendenza costituisce una sfida importante per il sindacato, che potrebbe ulteriormente perdere rappresentatività e potere negoziale.

Ogni paese adotta un proprio sistema per risolvere il conflitto tra capitale e lavoro, sia all’interno dell’impresa che sul mercato. Nei paesi anglosassoni le scelte aziendali sono meno condizionate dalla legislazione e dalla pressione politica e sindacale. Il lavoro viene protetto soprattutto dal sistema fiscale (salario minimo, ammortizzatori sociali). Viceversa, in Italia e nell’Europa continentale, il lavoro è protetto anche all’interno dell’impresa, con vincoli contrattuali, pressione politica o meccanismi di controllo che limitano la discrezionalità del management.

Come cambierà il potere contrattuale di lavoro e capitale in un’economia in cui le scelte organizzative e salariali saranno sempre più decentrate? Come cambierà la dinamica degli investimenti e la dimensione delle imprese? Per rispondere a queste domande può essere utile partire dalla premessa che, nel corso delle negoziazioni tra imprese e sindacati, il potere contrattuale delle due parti in gioco non è costante. Un primo stadio della negoziazione è precedente allo stanziamento degli investimenti. In questo "momento" il denaro degli investitori non si è ancora trasformato in macchinari o impianti.

Poiché il lavoro è poco mobile e il capitale può migrare alla ricerca delle condizioni migliori in giro per il mondo, l’impresa ha molto potere contrattuale. Questo punto di vista è quello adottato dalla Fiom quando ha sostenuto che i lavoratori di Mirafiori chiamati a scegliere se accettare il nuovo contratto «erano sotto ricatto», perché il rifiuto avrebbe determinato la chiusura dell’impianto. Tuttavia, la contrattazione non finisce nel momento in cui l’investimento viene deciso.

Nel corso della vita dell’impresa i lavoratori possono rivendicare condizioni migliori (aumenti salariali o riorganizzazione del lavoro) grazie al diritto di sciopero o mediante strumenti meno palesi, come l’assenteismo. Il potere contrattuale del capitale, in questa fase, è più debole perché la smobilitazione degli investimenti e i licenziamenti sono costosi, e i lavoratori (almeno in Italia) possono ricorrere al giudice del lavoro.

Che il sindacato sia consapevole dell’importanza del potere contrattuale ex-post (cioè successivo all’immobilizzazione del capitale) è confermato dalla vicenda di Mirafiori. Infatti, la parte del contratto su cui la Fiom ha opposto il veto non riguarda i turni e l’organizzazione del lavoro, ma piuttosto la clausola di responsabilità, cioè il divieto di scioperare contro specifiche condizioni dell’accordo contrattuale approvato dalla maggioranza dei lavoratori. È dubbio che questa clausola costituisca una violazione di diritti costituzionali, ma è certo che essa limita il potere contrattuale del sindacato ex-post, cioè quel potere che si esercita dopo l’investimento.

È chiaro, tuttavia, che tale potere ha un costo che ricade anche sui lavoratori. Da una parte, infatti, l’esistenza di garanzie limitate o non concordabili ex-ante sui termini di un accordo contrattuale scoraggia o limita gli investimenti. Dall’altra, essa depotenzia i sindacati più rappresentativi, incapaci di assicurare l’osservanza degli accordi, e incentiva la frammentazione della rappresentanza sindacale.

Italia e Germania appartengono all’insieme dei paesi in cui le grandi imprese fronteggiano sindacati forti, una legislazione sul lavoro severa e alti costi di licenziamento. Tuttavia, mentre in Germania il sindacato ha un ruolo importante nelle decisioni aziendali e la conflittualità in fabbrica è molto scarsa, in Italia la partecipazione alle scelte aziendali è limitata, il sindacato è spesso diviso e la conflittualità è molto più elevata. Ciò rende difficile la realizzazione di accordi aziendali e contribuisce al nanismo del nostro sistema industriale. Queste circostanze potrebbero anche spiegare perché i salari italiani sono tra i più bassi nell’insieme dei paesi industrializzati.

Nel nostro paese prevale un modello basato su piccole aziende familiari in cui l’imprenditore-proprietario ha un attaccamento speciale nei confronti dell’impresa e, spesso, un rapporto cooperativo con le maestranze. Questo modello ha molte virtù, ma anche molte debolezze. La nostra economia è particolarmente esposta alla concorrenza estera e ha uno scarso vantaggio competitivo basato sull’innovazione e su ricerca e sviluppo.

Per superare questi limiti è necessario incoraggiare gli investimenti e la crescita dimensionale delle imprese. L’esperienza dei grandi paesi industriali ci dice che questo processo può avvenire o mediante una minore rigidità contrattuale e minori vincoli all’organizzazione interna delle imprese (come nei paesi anglosassoni) o mediante una corresponsabilità, o co-determinazione responsabile, del sindacato alle scelte ed ai rischi aziendali (come in Germania). In ambedue i casi la contrattazione aziendale prevale oggi sul contratto collettivo nazionale. È difficile immaginare una via alternativa. Pietro Reichlin - NEL MODELLO USA PIÙ FATTI CHE DIRITTI - Sembra persino paradossale che, nelle settimane passate, quando si parlava in continuazione di contrattazione collettiva, di turni e di pause di riposo e anche di modelli sindacali, non ci sia stato quasi nessun tentativo di mettere a paragone le esperienze negoziali concrete dell’industria dell’automobile. Si è discusso a non finire di diritti e di condizioni dei lavoratori, trascurando tuttavia di considerare la struttura degli accordi sindacali e quanto essi ci dicono delle forme effettive di esercizio della tutela sul luogo di produzione. Eppure, anche un raffronto sommario può dare indicazioni significative sulle relazioni fra imprese, sindacato e lavoratori e sullo spazio di trattativa che si delinea nell’applicazione delle regole sulla prestazione di lavoro.

Un’analisi dell’accordo siglato fra la Chrysler e la United Automobile of America nell’aprile 2009, contestuale alla definizione dell’alleanza con la Fiat, è illuminante per la distanza che rivela fra le relazioni industriali negli Stati Uniti e in Italia. Inevitabilmente, l’attenzione è condizionata dalla controversia sui punti di attrito maggiore che si è scatenata prima e dopo l’accordo Fiat del 23 dicembre scorso. Anzitutto le pause, un terreno di scontro cruciale: nell’intesa Chrysler alla questione sono dedicate in tutto otto righe. In esse ci si limita a specificare che le pause sono calcolate in ragione di cinque minuti ogni ora lavorativa per ogni operaio dislocato sulla linea di montaggio, mentre i minuti scendono a tre ogni ora per i lavoratori indiretti. Non si aggiunge null’altro, così come si dice ancora meno per gli straordinari, stabilendo che saranno riconosciuti al termine del completamento delle 40 ore settimanali di lavoro.

Un buon conoscitore dei contratti di lavoro italiani stenterà a ritrovarsi nelle lasche prescrizioni del general settlement Chrysler-Uaw. L’impressione è di essere dinanzi a linee-guida estremamente generali, con una flessibilità applicativa demandata a ogni singolo impianto produttivo. Temi che fanno parte della tradizione sindacale di fabbrica come l’organizzazione del lavoro ricevono pochi cenni, giusto qualche rinvio al Word Class Manufacturing come al paradigma di riferimento per un assetto produttivo in evoluzione.

Vale certamente la considerazione che il contratto americano del 2009 è concepito per sottrazione rispetto al precedente del 2007, con declaratorie relative a tutto ciò che i lavoratori perdono rispetto a un passato ben più generoso, che siano in gioco i livelli retributivi (con un salario d’ingresso che penalizza fortemente i nuovi operai) o il complesso sistema di benefit di cui usufruiva il mondo del lavoro di Detroit da oltre mezzo secolo. La riduzione delle prestazioni sanitarie per i dipendenti della Chrysler è minuziosamente dettagliata, fino alla cancellazione del pagamento di farmaci come il Viagra e il Cialis.

Da una lettura d’insieme dell’accordo si trae l’idea che esso costituisca, da un lato, uno strumento di sopravvivenza per un’impresa a rischio e, dall’altro, un segnale di un passaggio di fase, in cui la tutela sindacale ripiega, ma in attesa di ridefinirsi in futuro, non appena le condizioni del settore lo permetteranno. Ciò vale ovviamente per la negoziazione salariale, che la Uaw intende rilanciare non appena possibile. Ma è chiaro che non tutto potrà essere recuperato, a cominciare dai generosi trattamenti sanitari e previdenziali, risalenti al tempo in cui il "contratto di Detroit" era un patto leonino tra contraenti ben consapevoli della loro forza.

Anche a quell’epoca, tuttavia, il sindacato non entrava direttamente sui nodi dell’organizzazione del lavoro. Perché la Uaw vi aveva rinunciato di fatto da quando era stata sconfitta nel primo grande sciopero nell’immediato dopoguerra per il principio del controllo sindacale, in cambio di una crescita incrementale dei salari e dei sistemi aziendali di previdenza e di assistenza sanitaria. Ma anche perché il pragmatismo del sindacalismo americano considera le regole sulla prestazione di lavoro come un processo di aggiustamento continuo, che si realizza nel vivo dei problemi di fabbrica. È una visione lontana da quella italiana, dove invece si tende a una normativa articolata e puntuale. Quest’ultima, comunque, non può estinguere il grado di discrezionalità che si esercita all’interno di un flusso di lavoro in movimento, dove le prescrizioni formali non possono mai coincidere con l’assetto sociale della produzione.

La prospettiva del contratto Chrysler del 2009 rientra già nella logica della ricerca della partnership fra impresa e sindacato verso cui si è orientata in seguito la Uaw. Ma lascia capire che per fronteggiare il cambiamento nelle fabbriche occorre un’autorevolezza dell’organizzazione sindacale incompatibile con un’eccessiva frammentazione delle rappresentanze o almeno con una loro strutturale debolezza sul piano delle decisioni.