Antonella Scott, Il Sole 24 Ore 25/1/2011, 25 gennaio 2011
TORNA L’OMBRA DELL’EMIRO UMAROV
Prima, da Domodedovo si partiva per andare a sud e a est, oltre gli Urali, un aeroporto tanto inospitale, maleodorante e grigio da apparire come un girone infernale, almeno per i poveri migranti costretti a bivaccare tra gli stracci e il freddo. Ieri però l’inferno è davvero tornato a Domodedovo. Man mano che il fumo dell’esplosione si diradava apparivano le sagome scure dei corpi a terra, nel primo tra gli scali moscoviti a rinascere moderno, scintillante, il più grande in Russia per numero di passeggeri. Ma in realtà, che cosa è cambiato?
Ieri pomeriggio il presidente Dmitrij Medvedev ha subito "twittato" le sue accuse ai responsabili della sicurezza, e il consigliere economico Arkadij Dvorkovich, che stava per accompagnarlo al Forum internazionale di Davos, si è affrettato a scrivere - sempre su Twitter - che «è difficile pensare ad altro se non alle vittime». A Davos si contava di sondare l’interesse degli investitori stranieri per le privatizzazioni russe, Medvedev avrebbe incontrato più di cento capitani d’industria. Lo ha fermato un kamikaze, Caucaso del Nord hanno subito detto. Di nuovo la stessa terribile domanda per il presidente russo che sogna di trasformare il proprio paese: dal marzo scorso, quando 40 moscoviti morirono per le bombe esplose in due stazioni del metrò, da allora che cosa è cambiato?
Mosca, come in primavera, è vulnerabile, è obiettivo dei terroristi, ed è ferita. Nei giorni scorsi era circolata la voce che Doku Umarov, l’uomo che vuole trasformare il Caucaso in un califfato islamico, fosse morto. Si potrebbe concludere che Domodedovo sia la sua risposta a quelle voci, un avvertimento all’eterno nemico, Ramzan Kadyrov, boss della Cecenia sostenuto dal Cremlino. «Porteremo la guerra nelle strade e nelle case dei russi, la sentirete sulla pelle», minacciò l’emiro rivendicando gli attacchi di marzo, come ama fare, su internet. A Mosca il sangue e i fiori scomparvero rapidamente dalla banchina del metrò, ma sarà sempre più difficile cancellare le tracce della paura.
In breve tempo hanno lanciato una massiccia operazione di sicurezza, forze speciali schierate negli altri aeroporti della città, nelle stazioni ferroviarie, nel metrò. Decine e decine di immigrati dalla pelle scura e sospetta, di nuovo, verranno fermati, perquisiti, maltrattati: tra loro potrebbe nascondersi il prossimo, esplosivo sotto la cintura, non deve riuscire a scivolare attraverso i controlli che a Domodedovo, area arrivi internazionali, ieri non hanno funzionato.
Soltanto venerdì scorso il primo ministro Vladimir Putin era tornato a porsi una delle domande che stanno al cuore del problema: «In teoria - aveva osservato davanti a una commissione socioeconomica che si occupa del sud del paese - è stato fatto tutto il possibile per arrivare a uno sviluppo del Caucaso rapido e uniforme». Però i soldi non arrivano: in tre anni il governo ne ha stanziati molti, 91 miliardi di rubli, 2,3 miliardi di euro, senza però riuscire a sconfiggere la povertà. In una regione, spiega Lilit Gevorgyan di Global Insight, «che ha gli standard di vita più bassi della Federazione, e dove il deterioramento della situazione economica è stato aggravato dalla crisi». Programmi federali ostaggio della corruzione e pugno di ferro contro i ribelli, una ricetta che non funziona se la guerra degli islamici del Caucaso continua e si fa anzi più radicale. Un bollettino micidiale e silenzioso quando non riguarda Mosca, un calvario quotidiano di esplosioni, attacchi alla polizia, repressioni e morti lungo tutta la corona delle montagne. Inosservate.
Venerdì Putin ha annunciato un nuovo piano che nel solo 2011 riserverà per il Caucaso settentrionale addirittura 400 miliardi di rubli di investimenti, con l’obiettivo di creare 400mila posti di lavoro. «Progetti agricoli su larga scala - ha elencato il primo ministro - nel comparto energetico e nelle infrastrutture, e nel turismo». C’è spazio per tutti, privati e pubblici: secondo Aleksandr Khloponin, inviato speciale del presidente nella regione, la rivoluzione socioeconomica del Caucaso richiede 2.300 miliardi di rubli. Tra i progetti c’è quello di attirare sciatori russi e stranieri in nuovissimi resort dalle pendici dell’Elbrus alle rive del Caspio, e non si capisce bene se Khloponin fa dell’ironia quando assicura che «non ci sono problemi, se non che si spara di tanto in tanto».
Le stazioni di sci nel Caucaso erano una delle iniziative che Medvedev avrebbe dovuto presentare a Davos. Ma ora resta solo da riflettere sulle bombe di primavera a Mosca, e sulla tragedia di Domodedovo. E chiedersi perché il 2010, ancora una volta, per il Caucaso è stato un anno perduto.